2020
vedi PROGRAMMA primo semestre
PROGRAMMA
secondo semestre
Si
ricorda che le iniziative sono riservate agli associati, i quali,
con il tesseramento annuale si rendono tutti compartecipi delle
responsabilità e della gestione dell’associazione stessa. Chi
non è socio può comunque partecipare una tantum alle
escursioni, versando 5 euro che verranno considerate come acconto
del successivo tesseramento, da effettuarsi in occasione di una
ulteriore uscita
(€.15 singolo/€.20 familiare).
L'iscrizione ha validità annuale e si può
effettuare o
partecipando ad un'iniziativa e versando la quota al referente
dell'iniziativa stessa, che poi la consegnerà al tesoriere, oppure
contattando direttamente il tesoriere: attualmente Luisa Rocchi -
luisa.massimo@gmail.com
- 349 7114943
note e regole di partecipazione:
1)
tramite una mailing list vengono effettuate comunicazioni di vario tipo
agli associati, dai periodici incontri nell'attuale sede provvisoria (via Roma
230 c/o locali annessi al museo di storia naturale) ad eventi
interessanti ma gestiti da altre associazioni etc.etc................chi
vorrà ricevere tali informazioni è sufficiente che lo comunichi ad
agireverde@tin.it .
2) per partecipare alle diverse attività
dell'associazione si deve prendere atto che diventando soci ci si
corresponsabilizza nella gestione dell'associazione stessa, divenendo
tutti con eguali diritti/doveri essendo quindi tacitamente inteso che,
non esistendo
accompagnatori professionali e retribuiti, i referenti occasionali
(anch'essi soci) che si prestano
alla conduzione ed auspicati in ampia rotazione, non saranno mai da
considerarsi responsabili per eventuali incidenti possano verificarsi in
occasione delle diverse iniziative. E' sottinteso come sia opportuno
verificare le proprie condizioni fisiche prima di partecipare alle
escursioni, benchè esse siano sempre previste per essere alla portata di
tutti, trattandosi sempre di percorsi oggettivamente privi di qualsiasi
rischio.
3) Partecipando ad una iniziativa, quando non previsto altrimenti, è
opportuno
farlo sapere entro il venerdi sera precedente, al più tardi
(lasciando nome, numero di partecipanti e telefono) per essere avvertiti
di eventuali mutamenti di programma anche all'ultimo minuto, senza
correre il rischio di arrivare nel luogo dell'appuntamento quando questo
è stato precedentemente annullato per maltempo o altro motivo.
4) Per favorire l'amalgama tra soci e
direttivo (rinnovabile a scadenza, a norma di statuto) e far sentire tutti
responsabili della crescita dell'associazione, intesa non solo come momento
aggregativo ma anche come attrice di cambiamento in tema di politiche ambientali
e salvaguardia del territorio, quando il direttivo in carica ha proposte da
presentare ai soci oppure quando un socio lo richiede, avendo egli stesso
proposte o questioni che desidera affrontare e sviluppare in associazione, viene
chiamato un incontro soci/direttivo in via Roma 230, c/o locali annessi al museo
di storia naturale alle h.21.15, come precedentemente specificato.
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Avvertenze: prima di
iniziare un trekking, oltre ad auto valutare la propria condizione fisica, senza
barare, vi consigliamo la lettura di questo sito, utilissimo per chi ha poca
pratica di escursionismo. Da ricordare, quando si affrontano dislivelli, che in
media per circa 250/300 metri occorreranno circa 1 ora (ma se anche ce ne
mettete h.1,30 va bene lo stesso), non dimenticando comunque eventuali soste di
recupero di 15 minuti ogni ora (in escursione non c’è alcun record da
battere e l'ambiente intorno va gustato senza alcuna fretta).
http://xoomer.virgilio.it/geotrek/page271.htm . Ovviamente è scontato che si
debbano calzare scarpe da trekking con suola robusta e non scarpette tempo
libero.
Buona lettura e
buone scarpinate con Agire Verde.
ps: informatevi
sempre e personalmente c/o il referente di eventuali problemi che possano
esserci sul percorso, anche in base alla propria condizione fisica, del tipo: dislivelli da superare; cosa fare se, sentendo
la stanchezza, non si riesce a tenere passo di chi va più veloce; se c’è acqua
per rifornirsi etc.etc.
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2020 primo
semestre
Domenica 12 gennaio - Anello di Camaiore
Domenica 26
gennaio - gli arenili tra Donoratico e San Vincenzo
Sabato 08 febbraio:
Educazione ambientale a Rosignano Solvay
07/08 marzo –
Ciaspolata 2020
Rinviata x covid19
15
marzo: percorsi nel verde a Riparbella Rinviata x covid19
29 marzo: le
terme etrusche di Sasso Pisano
Rinviata x covid19
05 aprile: Bunker e
camminamenti della linea gotica a Borgo a Mozzano
Rinviata x covid19
19 aprile:
a Castagneto Carducci, nella terra del Sassicaia
Rinviata x covid19
24/27 aprile: trekking all’isola d’Elba
Rinviata x covid19
10 maggio treno trekking ad Equi Terme
Rinviata x covid19
31 maggio: La
Foresta di Berignone e il Castello dei Vescovi
Rinviata x covid19
xxx 7 giugno: l’anello del monte Altissimo
xxx
14 giugno “in
Cammino nei Parchi”
xxx 04/11 luglio - Gitone estivo in Dolomiti
xxx nota:
nella fase 3, pure essendosi allentate le misure restrittive/sanitarie a causa
del virus, le norme ancora in vigore per l'escursionismo continuano a vietare
gli assembramenti e invitano a utilizzare mascherine, distanziamento sociale
etc.etc. anche obbligando a non andare a giro con auto a pieno carico, limitando
quindi di fatto i nostri spostamenti (molti partecipanti alle nostre iniziative
necessitano di passaggio in auto).
Detto questo
e considerando che l'associazione esiste soprattutto come
punto di incontro e di socializzazione,
per evitare che ogni iniziativa si trasformi da motivo di relax in fonte di
complicazioni e stress, sia nelle escursioni che nei soggiorni in albergo (non è
desiderabile trovarsi a cena dopo un'escursione, in vacanza, distanziati e con mascherine, come si
fosse in un ospedale per malattie infettive................ pure con tutta la
comprensione possibile per gli albergatori che devono preoccupparsi anche di
evitare eventuali e possibili multe, come non bastassero gli immensi problemi
che già hanno.......... l'ass.Agire Verde annulla e rimanda anche le utime tre
iniziative programmate, soggiorno a Cortina compreso.
Ci scusiamo
per gli inconvenienti covid19 e .............. a settembre!
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Anello di Camaiore - 12 gennaio
Il camaiorese è una zona ricca
di charme e tradizione che si estende dalle vette delle Alpi Apuane fino al mar
Ligure, nel cuore della Versilia. Idealmente si può parlare di quattro grandi
aree: le colline delle Seimiglia, il capoluogo con la sua valle, la piana di
Capezzano ed infine il litorale di Lido di Camaiore e ciascuna di esse ha
tipicità particolari, dalle pendici dei monti ricoperti da boschi che, man mano
che si sale, divengono pascolo alpino, al piano che divide la costa dalle
colline ad ovest o anche alle piccole oasi, con le caratteristiche originali del
territorio paludoso tipico delle pianure costiere mediterranee. La possibilità
esplorativa quindi è molto ampia ma il percorso definitivo sarà tuttavia
comunicato sabato, effettuata una ricognizione del percorso, poichè la manutenzione
di alcuni importanti sentieri deve essere ancora verificata ed anche è
importante che il meteo non sia sfavorevole.
info:
Laura
Malevolti 338 9083212

Domenica 26 gennaio - Gli arenili tra
Donoratico e San Vincenzo
Il trekking sulla spiaggia tra Donoratico e San Vincenzo si sviluppa su un
tracciato diverso dagli altri, di recente progettazione e contrassegnato da
cartelli sulle distanze, diventando in breve un prezioso servizio per bagnanti e
turisti, oltre che percorso escursionistico classico della costa degli etruschi.
La spiaggia è di sabbia dorata e fine e
si estende per chilometri e chilometri, punteggiati, oltre all’antica
Torre di San Vincenzo,
da suggestive fortificazioni e vedette di avvistamento, un tempo utilizzate per
la difesa della costa dagli assalti dei pirati. Da dire infine che saremo
prossimi all’oasi floro-faunistica del Parco di Rimigliano, dove fiorisce il
giglio di mare e le dune sabbiose sono ricoperte di ginepri, di mirto e di
lentisco, con boschi di lecci e sugheri e la folta pineta che lambiscono
l’arenile. Info: Laura Malevolti 338 9083212
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Sabato 08 febbraio:
Educazione ambientale a Rosignano Solvay.
L’educazione all’ambiente rappresenta per REA Rosignano Energia Ambiente SpA una
tappa fondamentale nel processo di crescita della persona e divulgare la cultura
della riduzione, della raccolta differenziata, del riuso e del riciclo dei
nostri rifiuti, è oggi indispensabile. Tuttavia è importante iniziare fin da
bambini a guardare ai rifiuti come ad una risorsa, la cui gestione intelligente
può accrescere la qualità della vita e diventare un’opportunità per tutti noi.
Oggi seguiremo una proposta formativa che avrà come obiettivo lo sviluppo delle
competenze della persona, puntando non solo sulla trasmissione di nozioni, ma
ponendo al centro l’individuo. Nota: la propria presenza va confermata entro
giovedi 30.01
Info: Leo
Panicucci – 340 0033113
Proposta di
educazione ambientale:
Educare ad una buona
gestione del rifiuto, in particolare attraverso la raccolta differenziata e la
prevenzione, risulta essenziale nel nostro tempo. Per raggiungere dei buoni
risultati in questo ambito è necessario che ci siano delle conoscenze comuni,
che tutti si sentano ugualmente responsabili degli effetti ambientali dei propri
comportamenti e agiscano per lo stesso scopo.
REA pertanto propone
attività educative perché si raggiunga l’obiettivo di una consapevole e
responsabile sensibilità ecologica, a partire dalla gestione dei rifiuti, per
arrivare alla questione dello sviluppo sostenibile. Le proposte formative hanno
pertanto come obiettivo lo sviluppo delle competenze della persona, puntando non
solo sulla trasmissione di nozioni, ma ponendo al centro l’individuo.
OBIETTIVI:
1- Sviluppo delle
competenze attive di cittadinanza per ogni individuo in una prospettiva
ambientale ed
ecologica
2- Sensibilizzazione
e conoscenza delle modalità di raccolta e riciclo dei rifiuti (tema
dell’economia
circolare)
3- Sensibilizzazione
e conoscenza dei temi di riduzione e riutlizzo dei rifiuti
4- Incentivare a
buone pratiche nell’ambiente scuola e famiglia
5- Aumentare la
conoscenza dei servizi svolti da REA nel territorio servito
Il progetto che
propone REA si articolerà in percorsi specifici
per le diverse tipologie di utenti utilizzando:
- narrazione di
storie che tratteranno temi specifici in materia ambientale
- laboratori
- proiezione di
filmati
- formazione per
ragazzi ed insegnanti
- materiali didattici
e informativi
- contenitori per la
raccolta differenziata (cartonetti e multinetti)
NOTA: questa è una sintesi della proposta didattica
R.E.A, per approfondire vi rimandiamo direttamente al web
http://www.reaspa.it ed in particolare al link dedicato
http://www.reaspa.it/home-page/educazione-ambientale/proposte-formative/
E’ importante
che i partecipanti a questo incontro formativo si prenotino
entro il 30 gennaio 2020
perché la visita allo stabilimento va prenotata in anticipo alla direzione che
metterà a disposizione pulmini in base al numero dei partecipanti (visita
guidata)
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07/08 marzo –
Ciaspolata 2020.
Il Monte Tondo (m. 1782) divide i bacini del Serchio e del Magra, la Garfagnana
dalla Lunigiana e, se questa zona fosse nel comprensorio delle Dolomiti,
probabilmente sarebbe conosciuta ovunque e valorizzata ampiamente ma, per sua
sfortuna (o fortuna) trovandosi fra la Garfagnana e la Lunigiana, sul crinale
che dal Passo del Cerreto sale verso Est, rimane una zona escursionistica poco
conosciuta, nonostante la sua bellezza. Questo è il comprensorio scelto
quest’anno per la ciaspolata 2020, a due passi dal lago di Gramolazzo e da
Minucciano.
NOTA: LE
PRENOTAZIONI SARANNO ACCETTATE FINO AD ESAURIMENTO POSTI DISPONIBILI
Info : Rossano
Poggi -
0586 375131 (ore serali) o 331 1131900
15 marzo:
percorsi nel verde a Riparbella.
Questo ridente borgo era già
noto fin dal periodo etrusco per la sua vocazione rurale, come testimoniato dal
ritrovamento di anfore vinarie, ed è collocato in uno scenario che sintetizza
gli aspetti più caratterizzanti del paesaggio toscano: colline coltivate a
olivo, vite e grano, filari di cipressi ed una rigogliosa macchia mediterranea,
habitat naturale di cinghiali e altri ungulati. L’escursione di oggi ci vedrà a
spasso per questo territorio, nel verde e nella quiete di una zona ancora
incontaminata ed inserita nella “ Strada del Vino delle Colline Pisane”.
info:
Laura Malevolti 338 9083212
Come molti altri borghi della
provincia pisana, anche Riparbella nacque dove sorgeva un castello medievale,
voluto dai conti Della Gherardesca intorno all’anno 1000, ma ciò che lo
differenzia dal consueto è il suo sviluppo, non circolare attorno alla
fortificazione, ma lineare, lungo la via principale.
Da Riparbella si gode
una splendida vista sulla costa degli Etruschi fino alle isole dell’arcipelago
toscano.
La sua
storia (
Tratto da Guida
alla Val di Cecina, a cura di Susanne Mordhorst, Nuova Immagine
Editrice)
:
Situato in bella posizione sulle
pendici meridionali del Poggio di Nocola, a differenza degli altri paesi non ha
forma tondeggiante, ma si è sviluppato lungo la strada sul crinale di un dorso
collinare. Conserva un palazzo della fine del '400.
Nel territorio di Riparbella sono
stati ritrovati alcuni reperti di antichi insediamenti: in località Ortacavoli,
a ovest del paese, furono scoperti nel 1956, durante dei lavori stradali,
quattro pregevoli vasi e due asce di piombo dell’VIII secolo a.C.; a Belora,
sempre a ovest del paese, lungo la Via Salaiola, vennero scavate nel secolo
scorso numerose tombe etrusche, di epoca imprecisata, e nel 1964 una tomba di
Età romana.
Il nome deriva forse da Ripa
albella, vale
a dire Ripa
bianca, dal
biancore delle terre tufacee e sabbiose che costituiscono la cima della collina.
Nei documenti medievali e fino al ‘600 il nome è infatti "Ripalbella" oppure "Ripabella".
Il piccolo castello sorse
probabilmente intorno all’anno Mille e faceva parte delle possessioni dei conti
Della Gherardesca che
a quell’epoca abitavano altri due castelletti dei dintorni, Belora e Bovecchio,
il primo già menzionato per gli scavi etruschi, il secondo completamente
perduto, tanto che non si conosce più il luogo in cui si trovava.
La parrocchia di Riparbella era
compresa nel distretto della pieve
di Vallinetro (o
Vallaneto), località oggi scomparsa che si suppone si trovasse nella piana del
Cecina ai piedi della collina, in una località oggi chiamata San Martino.
Un primo documento storico che
menziona Riparbella è del 1125 e fa riferimento a una lite nata tra il pievano
di Vallinetro e certi monaci di Riparbella, forse benedettini, che avevano il
monastero a metà strada per il paese, in una località ancora oggi chiamata "Poggio
ai Frati". Diverse volte il pievano si era lamentato presso l’arcivescovo di
Pisa per il fatto che i riparbellini non solo facevano seppellire i loro morti
dai frati, ma portavano a loro anche le decime, che invece dovevano essere
consegnate alla pieve; si sentiva quindi, come dice il documento, "depauperato
dai monaci per rapina di decime e di corpi ed era irritato a causa delle
ribellioni e delle frequenti offese dei parrocchiani". L’arcivescovo ristabilì
l’ordine intimando ai riparbellini di portare morti e decime alla pieve, pena
l’incorrere nelle sanzioni previste ed essere partecipi dell’eterna maledizione.
Annessa al monastero di Poggio
ai Frati vi era una chiesa, dedicata a Santa Maria e nominata fin dal 1177, oggi
scomparsa, ma che dà ancora il nome al podere e al botro vicini.
Nel corso del primo secolo dopo
il Mille l’arcivescovo
di Pisa riuscì
a comprare le terre di Riparbella e di molti castelli intorno, come Belora, Pomaia e Santa
Luce, in modo che già verso il 1150 ebbe su queste terre non solo la
giurisdizione ecclesiastica, ma anche quella temporale, compreso il diritto di
infliggere pene pecuniarie e corporali, fino alla pena di morte. Questi poteri
venivano esercitati attraverso un visconte che nei vari castelli dipendenti era
sostituito da un vicario.
Nella seconda metà del XII
secolo e ancor più durante il XIII, sorsero contrasti tra l’arcivescovo e il
Comune di Volterra per il dominio dei castelli di Riparbella, Strido, Mele eMontevaso.
Sia nel 1198 che nel 1292 si dovette ricorrere ad arbitri, che aggiudicarono
sempre questi castelli all’arcivescovo di Pisa, a condizione, tuttavia, che non
dessero rifugio ai "fuoriusciti" o ai "banditi" della città di Volterra.
Riparbella da allora è rimasta saldamente in mano all’arcivescovo di Pisa fino
alla conquista di quella città da parte diFirenze nel
1406. Nel 1319, addirittura, l’arcivescovo vi dimorò per qualche anno, forse
fino al 1322, a causa della situazione poco stabile a Pisa, dove aveva dei
dissidi con le istituzioni repubblicane.
La crescita del piccolo castello
si rispecchia nell’aumento del numero delle chiese che vennero censite dalla
mensa arcivescovile: mentre nel 1177 e nel 1276 fu nominata solo lapieve di
Vallinetro, intitolata a San Giovanni, nel 1277 compaiono nell’elenco delle
decime anche Santa
Maria di Riparbella (al
Poggio dei Frati, esistente comunque anche prima) e Sant’Andrea
di Belora; nel 1296 troviamo inoltre San
Bartolomeo in Pecoraio (in
località San Pecoraio a nordest del paese) e San
Michele in Riparbella, posta all’interno delle mura dei castello, e nel 1372
si aggiunge San
Michele de’ Meli, castello nelle vicinanze, oggi scomparso. Tutte erano
subordinate alla pieve di Vallinetro.
Nel 1345 Riparbella non
partecipò alla rivolta dei castelli dei conti
di Montescudaio-Della Gherardesca contro
la Repubblica di Pisa; ma nel 1406 si sottomise alla Repubblica di Firenze il
giorno 21 marzo, sette mesi prima che Pisa stessa cadesse sotto il dominio
fiorentino.
Nel 1477 fu occupata dalle
truppe di Alfonso
di Aragona redi Napoli —
che nella guerra contro Firenze devastarono i castelli della Vai di Cecina —, ma
già l’anno dopo fu riconquistata dall’esercito di Firenze. È probabile che in
questa occasione i fiorentini abbiano distrutto il castello, e forse anche la
pieve fu danneggiata o distrutta durante le operazioni belliche, visto che è
nominata ancora nel 1422 ma non compare più nel 1462-63, nè in seguito.
Nel 1594 i
pisani si sollevarono contro Firenze e anche la popolazione di Riparbella si
ribellò al dominio fiorentino, ma già alla fine dello stesso anno Firenze
riprese il controllo della situazione.
Sotto la Repubblica dì Firenze
Riparbella ottenne lo status di
libero Comune, sottoposto alla Potesteria
di Peccioli e
al Vicariato
di Lari. Nel 1488 il Comune si diede i primi statuti, redatti con gran
"vociferare" nella chiesa del castello, come annota, protestando, il parroco.
Gli statuti regolavano gli affari interni della comunità e stabilirono, tra
l’altro, alcune regole. L’amministrazione comunale doveva essere diretta da due
consoli, estratti a sorte da una borsa che conteneva i nomi
di tutti gli uomini del comune sopra i vent’anni. I consoli rimanevano in carica
per sei mesi. Essi erano affiancati da un Consiglio
Comunale composto
da ventiquattro uomini, estratti da un’altra borsa, che conteneva un nome per
ogni famiglia. Chi era eletto aveva l’obbligo non solo di partecipare alle
riunioni del consiglio, ma anche di arrivarvi puntuale, e di pagare una pena di
cinque soldi per ogni assenza. Il Consiglio era presieduto, almeno dal 1508, dal podestà
di Peccioli. Le votazioni avvenivano mediante fave nere e bianche
(rispettivamente per il no, e per il sì) e questa era la regola per tutto il
territorio di Firenze. Nel 1560 le fave bianche vennero sostituite da fagioli.
Un’altra carica importante era
quella del camarlengo,
una specie di tesoriere o ragioniere del Comune che amministrava i soldi. Veniva
estratto per un anno e alla fine del mandato doveva rendere conto delle sue
operazioni: se mancava qualcosa al bilancio doveva saldare la differenza entro
un mese. Era inoltre tenuto a consegnare i fondi al suo successore e se
trafugava delle somme doveva restituirne il doppio.
Altre magistrature comunali
erano quelle del campaio —
una specie di guardia campestre — del cappellano o
maestro di scuola e del barbiere,
che per un certo tempo faceva anche da chirurgo.
Gli statuti definivano i confini
dei pascoli comunali, e delle "bandite", stabilivano quante bestie ogni
famiglia potesse mandare sui pascoli e fissavano il canone annuo da pagare, e
cioè:
per ciascuna bestia brada
bufalina, vaccina o cavallina soldi dieci
per ciascuna bestia porcina soldi otto
per ciascuna capra o bestia caprina soldiuno
per ciascuna pecora o bestia pecorina soldi due
Nei pascoli era vietato
abbattere gli alberi selvatici da frutto come querce, certi, sugheri e lecci,
che miglioravano la pastura e fornivano le ghiande, alimento indispensabile per
i maiali, animali di grande importanza nell’economia familiare dell’epoca.
Naturalmente c’erano le multe per danni o furti nelle vigne, negli orti o nei
frutteti — con particolare menzione per i furti di fichi — e le pene erano di
cinque soldi, se il furto o danno avveniva di giorno, di dieci per chi rubava di
notte.
In paese si badava alla pulizia
della fonte: era vietato lavare i panni o abbeverare le bestie o "fare alcuna
bruttura" nel raggio di 40 braccia a est e 20 a ovest (rispettivamente circa 23
metri e 11 metri e 60). Maiali, capre e pecore non potevano girare o pascolare
nel paese o nelle immediate vicinanze e i maiali nel castello erano da tenere
chiusi nei castri.
Le entrate del Comune erano
costituite dalle multe inflitte
per le varie trasgressioni,dall’affitto dei pascoli e
dalla tassa che veniva imposta per la macellazione di ogni capo di bestiame.
Inoltre il Comune aveva il monopolio dei mulini e gli uomini di Riparbella
avevano l’obbligo di macinate le loro granaglie solo nei mulini comunali —"per
fare buone l’entrate di detto Comune".
Questi statuti venivano, negli
anni successivi, periodicamente riconfermati, a volte leggermente cambiati o
aggiornati, ed erano in vigore fino al 1737 e forse parzialmente addirittura
fino al 1817.
Sin dal 1456 l’arcivescovo di
Pisa, ancora formalmente proprietario delle terre, aveva lasciato tutto il
terreno comunale a disposizione "degli uomini e della comunità" di Riparbella,
che vi avevano il diritto di pascolo.
L’allevamento del bestiame e la
pastorizia erano le attività principali della popolazione e il pascolo veniva
concesso secondo le condizioni stabilite dagli statuti. Inoltre le singole
famiglie possedevano degli appezzamenti di terra, di solito vicini al castello e
recintati da siepi o muri, dove coltivavano gli ortaggi, le viti e gli olivi — i
domesticheti — o chiuse o da chiudere. L’uso comunitario delle terre assicurava
una relativa stabilità delle condizioni di vita a tutta la popolazione del
castello.
Il territorio di Riparbella
arrivava allora fino al mare, includendo anche la striscia tra il Cecina e il
Fine. Era quasi per metà coperto da boschi, il resto era pascolo con qualche
pezzo di seminativo. La parte costiera, da Collemezzano fino
al mare, apparteneva non alla comunità di Riparbella, bensì alla famiglia
dei Medici. Queste possessioni medicee si erano formate già alla fine del
XIV secolo per conto di Cosimo
il Vecchio e Lorenzo il Magnifico, e formarono più tardi le terre dello "Scrittoio
delle Reali Possessioni dei Granduchi".
All’epoca della stesura degli
statuti la comunità di Riparbella era in espansione; dappertutto, così si legge,
si vedevano "continuamente i popoli crescere, così le famiglie moltiplicare e
nuovi lavori farsi". Negli anni ‘60 del ‘400, dopo la scomparsa della pieve di
Vallinetro, il fonte battesimale era stato portato in paese e la chiesa di
Riparbella aveva assunto il nome di pieve
di San Giovanni —
la popolazione, allora, lamentava che le messe non venivano celebrate
regolamente, e il parroco, viceversa, denunciava la scarsa partecipazione alle
funzioni. Ma nel ‘500 cominciò un processo di privatizzazione delle terre, che
portò gradualmente alla diminuzione delle aree comunitative. Il Comune, anche se
formalmente non avrebbe potuto, aveva concesso alcuni terreni "a terratico",
cioè dietro pagamento d’affitto, a privati per il disboscamento e la semina,
mentre l’arcivescovo, dal canto suo, aveva venduto qualche terreno sottratto al
Comune. Si ebbe così una progressiva restrizione dei pascoli a disposizione
della comunità. Di questo si trova riscontro anche negli statuti, dove, nel
1520, venne introdotto un paragrafo che limitava a dieci il numero di bestie che
ogni famiglia poteva mandare al pascolo. Nel 1566 questo limite venne di nuovo
alzato a venti bestie per ogni famiglia. Inoltre, nel ‘500, incominciarono a
farsi sentire i primi effetti della diffusione
della malaria nella
pianura, e di anche di questo troviamo riscontro negli statuti: nel 1570 si
inasprirono le norme igieniche, aumentarono le pene per chi faceva circolare i
maiali nel paese senza curarsi "dell’infetione dell’aria che ne risulta" (le
vere cause della malaria non erano conosciute fino alla fine dell’Ottocento).
Per fare "quanto sarà possibile" per tenere l’aria più purificata, si ordinò che
ogni abitante del castello dovesse "almeno ogni sabato sera spazzare dinnanzi al
suo uscio […] e poi portare via fuori dalle mura la spazzatura".
Le terre comunitarie diminuivano
ulteriormente quando, alla fine del ‘500 venne eretta a Cecina la
Ferriera della Magona con
il grande forno al quale erano, per decreto, riservati tutti i boschi nei
dintorni. Dal 1604 questa riserva, estesa a un raggio di otto miglia dalla
Magona, investiva anche i boschi del territorio di Riparbella. D’allora in poi
fu vietato tagliare la legna, se non per uso di combustibile della ferriera;
inoltre nei lotti tagliati il pascolo era vietato alle vacche per cinque anni e
alle capre per dieci per favorire la ricrescita degli alberi.
Nel 1622 venne redatto un estimo
delle proprietà nel territorio di Riparbella, che rivela che il 32% di tutto il
terreno apparteneva alla comunità, il 16%a proprietari privati, il 50% ai
granduchi e l’1% a
enti religiosi.
Tra i possessori privati
spiccavano due famiglie locali, gli Spadacci e
i Mattei,
che concentravano nelle loro mani, rispettivamente il 10 e il 15% delle
proprietà private, mentre le altre famiglie possedevano di solito la casa e
qualche appezzamento di terra.
Dall’estimo risulta anche che la
stragrande maggioranza della popolazione viveva nel castello e nelle immediate
vicinanze e che il paese era fortificato e cinto di mura e aveva almeno due
porte, una di sopra e una di sotto. Probabilmente le mura erano costituite, come
avveniva di solito, dalle case stesse.
Nel XVII secolo le condizioni
generali di vita andavano via via deteriorandosi, soprattutto a causa della
diffusione della malaria e dello scoppio della grande epidemia
di peste del 1630. Ignoriamo quante vittime la pestilenza abbia mietuto a
Riparbella, ma sappiamo che gli abitanti costruirono in cima al paese una
cappella dedicata a San
Rocco, protettore dalla peste. L’avvenimento più importante dell’epoca fu
però l’infeudazione del paese, avvenuta nel 1635. In quell’anno i Medici
consegnarono la comunità in feudo ad Andrea
Carlotti di Verona, "cameriere" di Sua Altezza Reale e "coppiere" della
granduchessa, che veniva insignito del titolo di marchese
di Riparbella.
L’infeudazione comprometteva
gravemente la vita comunitaria, anche se gli statuti restavano in vigore, solo
che il Consiglio Comunale era ora presieduto da un podestà
del marchese. Il Carlotti, nel secondo anno del suo marchesato (1636), dotò
Riparbella di un’enorme cisterna. Il problema dell’acqua era molto sentito:
nessuna fonte era stata condotta al paese e la cisterna del Comune non
funzionava per mancanza di docce che vi si immettessero e comunque forniva acqua
cattiva. Tuttavia neanche la nuova cisterna risolse il problema. Del resto il
Carlotti fece della campagna una grande riserva di caccia, aggravando
ulteriormente la carenza di pascoli. I boschi che avanzavano e si infoltivano,
impedivano la ventilazione e resero il luogo empre più insalubre. La zona lungo
il Cecina venne del tutto abbandonata, ma anche nel castello la popolazione
diminuiva. Alla decima da pagare alla Chiesa (nel 1701, 1 staio e mezzo di grano
e mezzo baile di vino all’anno; quelli della Cinquantina davano un maiale) si
aggiungevano nuove tasse: nel 1676 venne introdotta la tassa
sul macinato, che rimase in vigore per un secolo e fu considerata
insopportabile dalla popolazione. Nel 1691 si impose anche la tassa
sul sale, durata fino al 1750. Nel 1706 la chiesa parrocchiale era talmente
mal ridotta da minacciare rovina e il Comune dovette stanziare fondi per
salvarla. Alla fine del Marchesato del Carlotti, nel 1736, Riparbellacontava
soltanto 258 abitanti. Il paese era in uno stato deplorevole come si può
rilevare dalla seguente descrizione: "i poggi […] (erano) ricoperti di folte
boscaglie che impedivano la ventilazione e ne rendevano in estate l’aria umida e
insalubre [...] i tetti (erano) ricoperti di una patina verdastra, segno
evidentissimo di malaria. A pochi metri dal caseggiato i boschi [...]
formicolavano di rettili schifosissimi, di grossi cinghiali e di lupi che con il
loro ululato accrescevano nelle notti il terrore ai miseri febbricitanti coloni
[...]". In simili condizioni l’aveva trovato anche ilTargioni Tozzetti nel
1742 "[...] circondato per ogni verso da boscaglia, e oltre di ciò ha de’ Poggi
vicini che gl’impediscono la ventilazione; perloché nell’Estate non è salubre.
Si aggiunge che l’acqua di una fonte, di cui bevono la maggior parte degli
abitanti, viene da Mattaione, ed è assai cattiva".
Nel 1737 i Carlotti vendettero
il feudo al senatore
Carlo Ginori di
Firenze, che poi lo unì alla sua tenuta di Cecina. Le richieste che il Comune
presentò al nuovo padrone sono assai indicative per la situazione del paese:
condurre in piazza una fonte buona di acqua potabile; dare agevolazioni a chi
volesse immigrare a Riparbella; cedere i restanti pascoli a titolo di affitto
perpetuo ai contadini; riformare il sistema delle tasse. Non sappiamo se le
richieste siano state esaudite.
Nel 1755, in
seguito all’abolizione dei
feudi in Toscana, Riparbella tornò alle dirette dipendenze del granduca e
venne sottoposto alla Potesteria
di Chianni, Vicariato
di Rosignano Marittimo. Intanto, durante tutto il XVIII secolo, le famiglie
benestanti erano riuscite a concentrare nelle loro mani un numero sempre
crescente di proprietà terriere. In primo piano erano i Mastiani e
i Baldasserini,
che avevano usurpato una notevole parte dei territori granducali. Nel 1781-82
queste due famiglie vennero trovate in possesso di 4 mila (delle complessive 20
mila) staiora del terreno delle Reali Possessioni e non sapendo come averle in
restituzione, si decise di offrirle loro formalmente per l’acquisto. Del resto
era di loro proprietà metà delle terre che prima erano comunitative. Negli anni
‘80 del XVIII secolo anche a Riparbella si doveva procedere all’allivellazione
dei terreni granducali e degli enti religiosi, com’era previsto dalla riforma
agraria leopoldina, per arrivare a una distribuzione più capillare dei
terreni. Ma di queste terre poco o niente arrivò nelle mani dei contadini o dei
mezzadri, perché nel 1787 Niccolò
Giusteschi comprò
in blocco tutte le possessioni granducali nel territorio per poi rivenderle per
proprio conto ai notabili del paese.
Dall’estimo del 1785 si apprende
che a Riparbella esistevano 62 intestatari di terreni (contro 82 nel 1622), ma
54 di questi possedevano solo l’appezzamento a "domesticheto", per vigna e
ortaggi, sotto le mura del castello, mentre il resto del territorio era in mano
a otto famiglie possidenti.
Nel 1790 un osservatore
granducale che passava a Riparbella, notò che si vedevano ancora molti avanzi
delle mura del vecchio castello, e che le macerie venivano usate dai
riparbellini per la costruzione di nuovi edifici.
Nel 1817 si riformarono i
sistemi amministrativi e a capo del Comune venne posto ungonfaloniere,
nominato dal granduca, affiancato da due
priori e sei
consiglieri. Dopo due secoli di dominio feudale, la comunità registrò una
ripresa, si costruirono nuove case: nel 1817 venne massicciata e resa
carrozzabile la via
del Bastione, cioè la strada per Cecina, e nello stesso anno si istituì nel
paese un ufficio postale. Il numero degli abitanti raggiunse 1.112 unità nel
1833 (contro le 292 del 1745). Il geografo
Zuccagni che
passò a Riparbella nel 1830 trovò la campagna ben coltivata e intorno al paese
tanti olivi. Un altro contemporaneo commentava nel 1843: "Il trovare oggi in
quel luogo così poco favorito dalla natura molta popolazione sana, il trasporto
giornaliero dei generi diversi, il moto continuo dei barrocci, l’osservare che
per ogni dove in cotesta contrada si vanno innalzando fabbriche (= case) [...]
tuttociò desta sorpresa, piacere e curiosità nel viaggiatore […]. Miglioramenti
si ebbero anche in seguito ai continui disboscamenti, alle nuove piantagioni di
viti e di olivi e agli allivellamenti delle terre dei Giusteschi, dei Gonnelli
e, più tardi, dei Baldasserini.
Nel 1836 a Riparbella si
verificò un’epidemia di colera, — malattia provocata
dal consumo di acqua infetta — che causò molte vittime e si ripeté anche nel
1855.
Nel 1838 il paese ricevette una visita del granduca
Leopoldo II che
suggerì la costruzione di una nuova chiesa e mise a disposizione anche i
finanziamenti. I lavori vennero iniziati nel 1841 e terminati nel 1845. La
vecchia chiesa, che era di circa due terzi più piccola di quella attuale e
orientata in direzione est-ovest fu demolita e la nuova venne costruita
perpendicolarmente a essa. Il campanile rimase lo stesso, gli fu però tolta la
piramide che la sormontava, che fu sostituita con una cella campanaria. Oltre
alla parrocchiale vi erano altre due chiesine, l’oratorio
della Madonna delle Grazie e
quello detto "di San Celestino" o "della Compagnia della SS.
Annunziata". Nel 1839-40 si costruì il nuovo cimitero, (oggi "cimitero
vecchio") a sud del paese, visto che quello precedente, accanto al campanile
della chiesa parrocchiale non era più sufficiente. Nel 1845 Riparbella contava
1.374 abitanti.
Nel 1846 un terribile terremoto si
abbatté su tutta la zona costiera e la chiesa parrocchiale, terminata l’anno
precedente, fu gravemente danneggiata. Anche gli altri due oratori erano
lesionati e l’unico altare agibile fu collocato sotto la loggia dell’oratorio
della Madonna. Le 137 case del paese erano tutte danneggiate, i morti erano
quattro, quattro anche i feriti gravi. Un riparbellino, Giuseppe
Tabani, scrisse Del
Terremoto accaduto in Toscana il 14 Agosto 1846, un’opera
pubblicata a Pisa nello stesso anno, da cui riportiamo l’avventura vissuta da
tale Amaddio Nesi nella campagna presso Gabbruccino:
"Spalancatoglisi sotto i piedi la terra, vi piombò, e vi fu chiuso fin sopra le
ginocchia. Una seconda scossa, per sua ventura, lo rese libero dagli orribili
ceppi". Per paura di nuove scosse i riparbellini passarono nove giorni
all’aperto.
Durante i moti
rivoluzionari del 1848 il
Consiglio Comunale manifestò con varie mozioni la sua fedeltà ai granduchi. In
seguito le idee liberali si diffusero anche a Riparbella, tuttavia nessun
riparbellino andò volontario nella guerra d’indipendenza contro l’Austria.
Nel 1 844 venne corretto il
corso della via del Bastione e si costruì il ponte
sul botro di Santa Maria. Il paese assunse l’aspetto che in generale ha
mantenuto fino a oggi: si fece ingrandire la via principale tra la chiesa e la
piazza abbattendo una fila di casupole appoggiate sulla destra; si rettificarono
l’andamento di via
della Madonna, che prima passava a destra del municipio, e di via
San Rocco, oggi via Roma. Nel 1866 venne costruito il municipio e nel 1867
si rese carrozzabile la strada Riparbella-Castellina. Nel 1859 si portò
finalmente una fonte d’acqua potabile in paese — quella del Felciaio non
quella buona del Doccino —,
perché il prezzo di vendita richiesto dalle proprietarie, le signore Carrani,
era troppo alto. Purtroppo si verificò l’inconveniente che ogni volta che
pioveva, l’acqua scendeva torbida e giallastra e nonostante le molte riparazioni
alle condutture non si riuscì mai a eliminare del tutto il guasto.
Nel 1862 venne costruita la linea
ferroviaria Cecina-Saline con
la stazione di Riparbella, che inizialmente si chiamava San Martino. Fu un
periodo favorevole per i braccianti perché la loro forza lavoro alla ferrovia
veniva pagata due o tre lire al giorno, contro una lira che solitamente
guadagnavano nei campi.
Al plebiscito
del 1860 i
riparbellini votarono in larga maggioranza a favore all’annessione. Gli anni
successivi all’Unità d’Italia furono caratterizzati dall’introduzione di nuove
tasse e aggravi fiscali; tra l’altro si introdusse, dal 1867 al 1882 di nuovo la tassa
sul macinato. Nel 1873 Riparhella aveva 3.793 abitanti in tutto il
territorio e tre scuole pubbliche nel paese, una maschile, una femminile e una
mista.
Nel 1882 il territorio di Collemezzano e
della Cinquantina venne
scorporato dal Comune di Riparhella e annesso a Cecina (con conferma governativa
del 1892). A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento molti abitanti di Pomaia,
Castellina e Riparbella furono influenzati dalle idee rivoluzionarie
dell’anarchico Pietro
Gori di Rosignano Marittimo.
Riparhella registrò 47 caduti
nella prima guerra mondiale. Conservò l’amministrazione socialista fino al 1920.
intorno agli anni ‘20 fu portata l’elettricità in paese e una dopo l’altra le
case vi si allacciarono. L’illuminazione stradale era a gas ancora nel secondo
dopoguerra. In campagna l’estensione della rete elettrica è avvenuta soltanto
negli anni ‘60-’70.
Nel 1933 fu costruito l’edificio
della scuola, nel ‘34 vennero inaugurate le Elementari e nel ‘36 le Medie.
Durante la seconda
guerra mondiale, e in particolare nel 1944 con la ritirata delle truppe
tedesche, anche Riparbella, come molti paesi vicini, ha visto atti
di rappresaglia contro
la popolazione civile e lo sterminio
di 11 persone al podere Le Marie.
Dalla fine dell’Ottocento il
Comune ha sempre registrato intorno ai 3 mila abitanti e ancora nel 1961 i
residenti erano 2.715, ma negli anni ‘60 e ‘70 si è verificato anche qui l’esodo
verso i centri industrializzati e in particolare verso Rosignano, sede della
Solvay. Alla fine del 1993 Riparbella contava 1.309 abitanti; la tendenza è alla
contrazione demografica e si fa sentire sopratutto nella popolazione scolastica.
Sul territorio lavorano alcune imprese industriali, tra cui quattro ditte di
escavazioni e frantumazioni e una ditta di manufatti in cemento. Il paese è
dotato di posta, banca, ambulatorio medico, farmacia e pompa di benzina, di
ristorante e pizzeria e di diversi negozi. Molte case in campagna sono state
vendute a stranieri — sopratutto tedeschi e svizzeri —, e i residenti stranieri
ammontano a 55 unità.
29 marzo: le
terme etrusche di Sasso Pisano
Antica rocca
medioevale, importante in epoca medicea per le miniere di allume (prodotto
essenziale per fissare i colori sulla stoffa), il borgo si erge sopra fitti
boschi di castagno e cerro, in prossimità delle sorgenti del fiume Cornia. In
epoca ancora più remota tuttavia e fino al III sec.d.c., queste zone furono
famose piuttosto per essere un vasto sito termale, etrusco prima e romano poi.
Abbandonato nel IV secolo e solo recentemente riportato alla luce, anche se
molto parzialmente, lo andremo a visitare come anche vedremo le putizze e
fumarole del borgo, simili a quelle delle vicine Biancane di Monterotondo M.mo,
che ci faranno ben comprendere perchè mai gli etruschi e i romani vi avessero
costruito le terme. I molteplici fumacchi di vapore bollente ed il tipico odore
sulfureo, ci illumineranno poi sul perchè, prima dell’era industriale, questa
valle fosse chiamata “la valle del diavolo” .
info:
Laura Malevolti 338 9083212
Sasso Pisano -
Il
borgo si erge sopra fitti boschi di castagno e cerro, in prossimità delle
sorgenti del fiume Cornia.
In epoca ancora più remota tuttavia e fino al III
sec.d.c., queste zone furono famose piuttosto per essere un vasto sito termale,
etrusco prima e romano poi. Abbandonato nel IV secolo e solo recentemente
riportato alla luce, anche se molto parzialmente, rimane tuttavia evidente e
fruibile la sorgente d’acqua calda che forma una grande vasca naturale a 40 °c ,
immersa nella macchia e vicinissima al sito. Per comprendere bene come mai gli
etruschi e i romani vi avessero costruito le terme tuttavia andremo anche a
vedere le putizze e le fumarole, manifestazioni geotermiche, simili a quelle
delle Biancane che, con molteplici fumacchi di vapore, fonti e rivoli di acqua
bollente ed il tipico odore sulfureo, ci mostrano pienamente perchè, prima
dell’era industriale, questa valle fosse chiamata “la valle del diavolo”.
Note
storiche e geomorfologiche sul’iniziativa odierna:
Sasso Pisano si
trova nel comune di Castelnuovo val di Cecina (PI), nel complesso delle colline
metallifere, in una zona nota come "aia del diavolo" per le manifestazioni
geotermiche che la caratterizzano. Il paesaggio infernale, simile a quello visto
alle Biancane di Monerotondo, in febbraio, si sussegue tra sbuffi di vapore e
fumacchi e ci mostra come si presentavano questi luoghi fino al settecento: una
valle dall'aspetto infernale, costellata di sorgenti calde, sbuffi di vapore
affioramenti di zolfo, con l'aria dal classico sentore di uova marce. Un luogo
insomma, che le superstizioni del passato collegavano facilmente al diavolo,
tant'è che alcuni storici attribuiscono a questa zona l'ispirazione per
l'ingresso degli inferi descritto nella divina commedia di Dante.
A pochi passi da Sasso Pisano, in località Lagoni del Sasso, è
possibile, salendo sulla collina che sovrasta il paese, “toccare con mano”
soffioni, putizze, fumarole, sorgenti calde, lagoni. A poca distanza poi, sulla
strada che porta a La Leccia, nei pressi del podere "il Bagno", recentemente è
stato scoperto un imponente stabilimento termale etrusco-romano con annesso
villaggio. Particolare importanza viene attribuita a questo sito, associato alle
"Aque Populanie" citate dallo storico romano Plinio e riportate dalla "Tavola
Peutingeriana", una mappa stradale dell'impero romano giunta fino a noi grazie a
riproduzioni medioevali. Ad oggi gli scavi sono ancora in corso, ma sono state
riportate alla luce vaste porzioni dell'impianto termale: sono visibili le
vasche, i canali che le alimentavano, colonnati e mura blocchi di arenarie e la
polla sorgiva.
note di
geotermia:
Durante lo
sviluppo del nostro pianeta, particolari fenomeni magmatici fecero risalire i
magmi fusi in superficie, in determinate zone della Terra, come Larderello o
Monterotondo M.mo o Sasso Pisano. Oggi, in questi
luoghi la crosta terrestre è più sottile ed il calore delle rocce del sottosuolo
è dieci volte superiore alla media terrestre e difatti, a circa 2Km di
profondità, si possono incontrare temperature di 300°C, che solitamente si
trovano a 7-8Km.
È questa
l'energia geotermica, contenuta sotto forma di calore nelle rocce del
sottosuolo.
Per poter utilizzare questo calore del sottosuolo, è necessario un mezzo "di
trasporto" che solitamente è l'acqua che circola sotto terra. A contatto con il
calore delle rocce, l'acqua si riscalda e formai serbatoi geotermici, dove
l'alta temperatura è mantenuta da uno spesso strato di rocce impermeabili.
Per ottenere energia, vengono prodotte artificialmente - o esistono già
naturalmente - delle aperture - "fratture" nel caso siano state create dalla
natura - come i pozzi. Nelle manifestazioni naturali una diminuzione di
pressione e un'immediata fuoriuscita di acqua calda, sotto forma di vapore dà
luogo ai famosi soffioni boraciferi o alle fumarole o alle putizze, che vedremo
oggi.
Il sito
archeologico:
Dal 1985 la Sopraintendenza
per i beni Archeologici della Toscana sta riportando alla luce, nelle vicinanze
di Sasso Pisano, nel Podere il Bagno, un complesso architettonico di eccezionale
interesse storico e archeologico. L'area si trova sulla strada tra Volterra e
Populonia, alla confluenza della valli del Cecina e del Cornia, in un ambiente
naturale di grande suggestione,
caratterizzato da una intensa attività geotermica, in cui ben si spiega la
presenza di un complesso architettonico sacro-termale legato a divinità
salutari.
Le prime notizie risalgono a una trentina di anni fa, quando fu rinvenuta una
tegola con bollo in caratteri etruschi che, sciolto in spumi huflunas (Spural =
"della città" ), faceva supporre l'esistenza di un edificio di carattere
pubblico.
Gli scavi hanno messo in
luce, anche se parzialmente, un complesso architettonico unico fino ad oggi
nell'Etruria Settentrionale, articolato in diversi settori e con diverse fasi di
vita. Ad una prima fase, con monumentale sloà (grande porticato) a tre
braccia, si aggiunge, nella prima metà del II scc. a.C., un impianto termale che
sfrutta in parte le murature del portico per appoggiarvisi. Successivamente
l'area viene sconvolta da un grande movimento franoso che trascina a valle parte
delle strutture.
Dopo un abbandono di quasi
un secolo gli edifici rimangono in uso sino alla fine del III sec. d.C. Un
gruppo di 64 monete in bronzo, riferibili al II sec. d.C. e rinvenute allo
sbocco di una canaletta di deflusso delle vasche, testimonia l'intensa
frequentazione dell'edificio nell'ultima fase di vita, Tra la fine del II e
l'inizio del IV secolo d.C. il sito viene completamente abbandonato.
Per approfondimenti vi
rimandiamo a:
http://www.lafumarola.it/vedere.html
http://www.lakinzica.it/il-parco-delle-fumarole-di-sasso-pisano

05 aprile: Bunker e
camminamenti della linea gotica a Borgo a Mozzano.
Tra il 1943 e l'agosto del 1944 i comandanti dell'esercito tedesco stabilirono,
come ultimo baluardo all'invasione dell'Italia Settentrionale da parte degli
anglo/americani, di costruire una formidabile linea difensiva dall'Adriatico al
Tirreno (320 Km Viareggio - Rimini). L'opera fu realizzata con la mano d'opera
di migliaia di uomini che, in circa un anno, edificarono queste imponenti
fortificazioni. Nella MediaValle del Serchio, all'incirca dall'abitato di Sesto
a Borgo a Mozzano, sono ancora esistenti e ben consenvati bunker, piazzole,
camminamenti e valli anticarro: un sito rimasto praticamente l'unico intatto di
tutta la linea, rappresentando un importantissimo patrimonio documentario che
noi visiteremo e conosceremo affiancati da una guida.
info:
Laura Malevolti 338 9083212
Breve descrittivo -
Nei primi mesi del ’44, quando furono avviati i
lavori della Linea Gotica, la Germania nazista stava già conoscendo delle
difficoltà nella conduzione del conflitto, e cominciava a scarseggiare in
uomini, armi e mezzi. Così, le fortificazioni vennero costruite soprattutto
sfruttando le risorse naturali presenti in loco, rinunciando quasi ovunque alle
grandi opere in cemento armato. Stesso discorso per la manodopera: gli operai
della Todt dovettero essere integrati con quasi 50mila lavoratori italiani;
reperiti spesso in modo coatto. Si trattò, insomma, di un apprestamento
difensivo costruito “alla meno peggio”, ma alla prova dei fatti comunque
efficace: strutturato come un sistema di posizioni su allineamenti progressivi,
bloccò gli Alleati per ben otto mesi. Nel complesso, la costruzione della Linea
Gotica e le battaglie che vi si combatterono, determinarono un lungo periodo –
circa un anno e mezzo – durante il quale l’Italia centrale fu scenario di primo
piano degli eventi bellici. La cosa non fu senza conseguenze, specie per i
civili. A cominciare dal fatto che per rendere sicure le aree interessate dai
lavori, i nazifascisti misero in atto contro partigiani e popolazione locale una
vera e propria strategia del terrore: reparti addestrati compirono eccidi e
stragi in molte località di Toscana, Umbria, Marche, Emilia-Romagna. Vennero poi
i bombardamenti degli Alleati e, per finire, le distruzioni operate dai tedeschi
al momento della ritirata. Al termine, tra macerie e desolazione, restò solo
una lunga scia di sangue. E a farne le spese furono spesso i piccoli paesi di
montagna. A più di 70 anni di distanza, i resti della Linea Gotica e i luoghi
della lotta partigiana sono ancora riconoscibili. Nell’area che attraversa il
Cammino si incontrano resti di trincee, postazioni di tiro, ricoveri, depositi.
Ma anche lapidi, cippi (talvolta monumenti) che ricordano il sacrificio di chi
ha combattuto il nazifascismo e la tragedia di chi è rimasto vittima degli
eccidi. Non ultimo – sparsi qua e là in Appennino – si incontrano i cimiteri di
guerra, dove riposano i combattenti di allora. La visita a questi luoghi vale
più di molte parole (pure importanti) contro la guerra: basta dare un’occhiata
alle date di nascita e di morte scritte sulle lapidi, per capire che la guerra
significa, prima di tutto, morire a vent’anni. Da qualsiasi parte della
barricata ci si trovi.
Per approfondimenti sulla memoria della linea gotica in Toscana, vi rimandiamo
senz’altro al sito
https://www.camminolineagotica.it/linea-gotica-oggi/
che è estremamente esauriente e ben fatto.
19 aprile:
a Castagneto Carducci, tra i vigneti del
Sassicaia
Reso immortale dai
versi della poesia di Giosuè Carducci “davanti a san Guido”, questo antico
borgo, nato attorno ad un castello medioevale, sprigiona un fascino tutto
particolare, immerso com’è in una campagna ricca di viti ed olivi e dalle
caratteristiche architettoniche armoniose, con i suoi vicoli lastricati e gli
antichi palazzi in pietra, spesso ingentiliti dalle fioriture dei gerani.
L’escursione di oggi, accompagnati da una guida locale (€.5,00), ci porterà non
solo a visitare un territorio urbano ricco di storia e fascino ma anche a
conoscere, attraversando i vigneti intorno al borgo, i vitigni particolari e
pregiati di questa zona nota per una produzione vinicola di eccellenza, con i
suoi Sassicaia, Ornellaia e Masseto.
Max 25 partecipanti, obbligatoria la
prenotazione.
Laura Malevolti 338 9083212
Nel paesaggio delle tipiche colline
toscane che
guardano il Mar Mediterraneo, ecco due affascinanti borghi: Bolgheri e
Castagneto Carducci, fra storia, enogastronomia d’eccellenza ed i versi
immortali di Giosuè
Carducci.
Castagneto Carducci
Capoluogo del Comune omonimo, è un piccolo borgo adagiato sulla sommità della
collina, su cui domina il Castello dei Conti della Gherardesca, un tempo
circondato da mura di cui sopravvive il fronte rivolto verso il mare e che
insieme alla chiesa di San Lorenzo, costituisce il nucleo originario del centro
abitato. Intorno al Castello la cui edificazione risale probabilmente al Mille,
si è sviluppato il centro urbano secondo uno schema di anelli concentrici che
danno vita ad un sistema di strade, vicoli e piazzette. Il castello ebbe, nella
sua lunga storia, numerose modificazioni e rifacimenti successivi, al pari della
chiesa parrocchiale, a lungo utilizzata come chiesa del castello, come si
ravvisa dall’esame delle strutture interne. Davanti alla propositura di San
Lorenzo, sorge la Chiesa del S.S. Crocifisso al cui interno è conservato il
Crocifisso ligneo di epoca quattocentesca, rinvenuto tra i ruderi dell’antico
monastero di San Colombano ed oggetto di vivissimo culto locale, rappresentato
dalle "Feste Triennali" .
L’attuale municipio, divenuto sede municipale nel 1849 nel quadro della
complessa vicenda delle preselle, aveva funzionato, a partire dal 1716, da
palazzo pretorio; nella piazzetta retrostante, la Piazza della Gogna, avevano
luogo le grida di condanne e l’esecuzione di infamanti pene alla gogna ed alla
berlina.
Di particolare interesse:
Castello della Gherardesca (Via Indipendenza), Propositura di San Lorenzo,
Chiesa del S.S. Crocifisso, Chiesa della Madonna del Carmine (di recente
dichiarata sede del costituendo Museo dei paramenti sacri), Centro Carducciano
(Via Carducci, 59), Museo Archivio, Piazzale Belvedere
Castiglioncello di Bolgheri:
posto su un'altura a quasi 400
metri sul livello del mare, la sua
posizione isolata ne fece prima un eremo e poi una fortezza. Le sue origini
risalgono all'anno
780 e nel corso della sua storia subì
vari passaggi di proprietà e trasformazioni: fino al
XV secolo appartenne ai
Della Gherardesca, poi ai Soderini
fino al
1665, quindi alla famiglia Incontri,
per poi passare nuovamente ai Della Gherardesca, come testimoniato dagli stemmi
impressi nella sala d'armi.
Il
castello, in particolare, è ricordato da
Giosuè Carducci nella poesia Una
sera di san Pietro:
«Ricordo. Fulvo il sole
tra i rossi vapori e le nubi
calde al mare scendeva, come un grande clipeo di rame
che in barbariche pugne corrusca ondeggiando, poi cade.
Castiglioncello in alto fra mucchi di querce ridea
da le vetrate un folle vermiglio sogghigno di fata.» |
(Giosuè Carducci,
Una sera di san Pietro, Delle Odi Barbare Libro II) |
Inoltre nelle cantine del castello è stato prodotto per la prima volta il
celebre vino
Sassicaia
Il vino:
Il
Bolgheri Sassicaia
è un vino
DOC
la cui produzione è consentita in una specifica zona del comune di
Castagneto Carducci.
Prodotto con almeno l'80% di
Cabernet Sauvignon
il Bolgheri Sassicaia è uno dei vini italiani più pregiati ed è prodotto
esclusivamente dall'azienda Tenuta San Guido, che possiede tutti i vigneti
all'interno dell'area delimitata dalla
DOC.
·
colore: rosso
rubino intenso, tendente al granato con l'affinamento
·
odore: ricco,
elegante, maestoso
·
sapore:
asciutto, pieno, robusto e armonico, con buona elegante struttura
Intorno agli anni quaranta il marchese Mario Incisa della Rocchetta,
appassionato di vini francesi, importò dalla tenuta dei Duchi Salviati a
Migliarino alcune barbatelle di
cabernet sauvignon
e di
cabernet franc
e la decisione di piantare questi vitigni fu in parte dovuta alla somiglianza
morfologica che egli aveva notato tra la zona di provenienza denominata
Graves, a Bordeaux, e quella dove avrebbe poi fatto crescere i
vitigni. Piantò i vitigni all'interno della tenuta San Guido, nella
Maremma livornese, avendone grande cura e nel
1944 ottenne le prime bottiglie di Sassicaia. Il vino fu prodotto
inizialmente ad esclusivo uso familiare, in controtendenza con gli standard
produttivi dell’epoca che tendevano a privilegiare la quantità alla qualità e la
prima annata commercializzata fu il
1968.
·
Alla fine del
2013, con la pubblicazione del relativo decreto da parte del Mipaaf, il
Sassicaia si è staccato dalla DOC Bolgheri (di cui era sottozona sino dal
1994, anno di nascita della DOC) ed è diventato una DOC autonoma . Questo passo
completa il percorso cominciato come semplice vino da tavola, successivamente
sottozona DOC e, finalmente, DOC a se stante (Bolgheri Sassicaia).
·
Nel 2018 cadono i
50 anni dalla prima commercializzazione, e per l'occasione si è tenuta a Lucca,
durante la manifestazione Anteprima Vini della Costa Toscana organizzata
dall'Associazione Grandi Cru della Costa Toscana, una degustazione verticale.
·
Come per tutti i
vini prestigiosi le vecchie e/o grandi annate di Sassicaia raggiungono prezzi
rilevanti, spesso oggetto di ricerca tra appassionati e commercianti.
Il
Sassicaia detiene un primato: è il primo vino italiano di una specifica cantina,
che, come succede in Francia per pochissimi vini celeberrimi, ha una DOC
riservata appositamente. La denominazione Bolgheri Sassicaia può utilizzarla
esclusivamente la Tenuta San Guido (della famiglia Incisa della Rocchetta) per
il suo vino corrispondente (questo perché Sassicaia è un
cru
in Bolgheri, interamente posseduto da Tenuta San Guido).

24/27 aprile:
trekking all’isola d’Elba.
Un’oasi verde che emerge dalle acque del mar Tirreno,
caratterizzata da splendide spiagge di sabbia e ghiaia che si alternano ad alte
scogliere a picco su acque cristalline, massicci granitici immersi nella macchia
mediterranea segnata da sentieri che dalla costa raggiungono i paesaggi
tipicamente montani dell’entroterra. Questa l’isola d’Elba e questo il luogo da
noi scelto per un breve soggiorno di fine aprile, percorrendo da est ad ovest il
crinale centrale dell’isola, che alterna tratti boschivi a splendide viste sul
mare, in un continuo mutare di colori e di paesaggi.
NOTA: LE
PRENOTAZIONI SARANNO ACCETTATE FINO AD ESAURIMENTO POSTI DISPONIBILI
Info : Rossano Poggi -
0586 375131 (ore serali) o 331 1131900
31 maggio: La
Foresta di Berignone e il Castello dei Vescovi
L’esteso complesso boschivo si trova in Alta Val di Cecina, tra i comuni di
Volterra e Pomarance ed è un’area costituita da
boscaglie sterminate e macchie intricatissime, ben
popolate da una fauna ricca e differenziata sia di ungulati che di
rapaci. Inoltrandoci nel verde di questa foresta resteremo stupiti dal suo
aspetto incontaminato e selvaggio, ma anche ci renderemo conto di come questa
zona abbia visto una presenza importante dell’uomo, testimoniata anche dai
ruderi del Castello dei Vescovi, rocca fortificata medioevale e residenza dei
vescovi di Volterra (sec. X°/XIV° ). info:
Laura Malevolti 338 9083212
La riserva naturale Foresta di Berignone
si
sviluppa in Alta Val di Cecina, tra i comuni di Volterra e Pomarance,
su una superficie di più di duemila ettari. Si tratta di un’area costituita da
boschi e
macchie popolati da una ricca fauna dove
troviamo istrici, faine, tassi, lepri, più di
cinquanta specie di uccelli, ma anche numerosi cinghiali e lupi, che vivono
indisturbati tra i fitti lecci e gli abeti. Le risorse vitali non mancano, sono
vari infatti i
corsi d’acqua che attraversano la zona: oltre ai torrenti Fosci e
Sellate, si distingue per la sua portata il fiume Cecina,
che in
località Masso delle Fanciulle crea una piacevole area balneabile dove i locali
combattono la calura estiva. Inoltrandosi nell’ombra delle fronde di questa
foresta, se ne percepisce ben presto l’aspetto incontaminato e selvaggio.
Non
mancano però i sentieri, che, curati nel loro percorso, permettono di esplorare
in sicurezza il bosco e di apprendere di più sulla vita nella selva, anche
grazie ad alcuni utili pannelli didattici. Questo territorio, infatti,
oltre a
possedere un notevole interesse naturalistico, ha visto una presenza importante
dell’uomo:
rifugio sicuro per i partigiani in tempo di Resistenza e luogo di lavoro fino
agli anni sessanta. In quanto indiscutibile riserva di legname, l’ambiente era
frequentato da boscaioli, che fornivano il combustibile necessario ad alimentare
le saline di Volterra. Con la loro maestria, infatti, dedicavano specifiche aree
alle carbonaie, delle strutture che consentivano di trasformare i tronchi in
utile carbone. Tra questi alberi, insomma, si è fatta la storia e lo
testimoniano anche
due ruderi di
rocche medievali: il Castello dei Vescovi e il Castello di Luppiano.
Il primo, in particolare, fu, come suggerisce il nome, dimora di prelati della
Diocesi lcoale e fu, per un periodo la zecca dove venivano coniate le monete dei
grossi volterrani.
Il castello conosciuto come
Rocca di Berignone (dal nome del bosco dove è locato, un ampio complesso
forestale che ancor oggi si presenta agli occhi del visitatore nella sua
suggestiva bellezza naturale), Castello dei Vescovi o semplicemente Torraccia, è
un importante sito fortificato posto a sud di Volterra, su uno sperone roccioso
alla confluenza del botro al Rio con il torrente Sellate, nell'alta valle di
Cecina.
Del castello emergono tracce
già nell'896, quando venne ceduto in dono da Adalberto, marchese di Toscana, ad
Alboino, vescovo di Volterra. Da allora fu roccaforte e residenza dei vescovi di
Volterra (per questo il nome), usata per amministrare la giustizia, per coniare
monete ma soprattutto come rifugio durante la loro lunga lotta contro il Comune.
Più volte i vescovi vi si ritirarono per evitare rappresaglie, come nel 1266,
dopo la vittoria guelfa di Benevento, per sfuggire dall'assalto dei ghibellini.
Nel 1361 Berignone si ribellò
al comune di Volterra, ma fu facilmente riconquistato. Nel 1381 furono gli
stessi abitanti di Berignone a voler porre sotto la tutela del comune la difesa
del castello, occupato dai parenti di Simone dei Fagani di Reggio, vescovo di
Volterra. Ne derivarono altre numerose dispute fino alla pace stipulata il 5
febbraio 1382. Nel 1399 il castello fu occupato dai Senesi e da quel momento
iniziò la sua definitiva decadenza.
Oggi non ne rimangono che i
ruderi a dominare vasti boschi popolati da ungulati e rapaci, ma anche da questi
si può intuire la forza e la severa eleganza delle strutture architettoniche di
un tempo.
10
maggio treno trekking ad Equi Terme.
Piccolo e caratteristico borgo
che sorge nella valle del fiume Lucido, addossato alla grande parete del Pizzo
d’Uccello, Equi Terme ha il suo punto di forza nelle bellezze naturalistiche del
complesso carsico sotterraneo, modellato nei millenni dall’erosione dell’acqua e
visitabile. Non distante dalle grotte però, c’è anche il solco di Equi che vale
la pena di vedere, stretto e profondo canyon naturale formato dall’erosione del
torrente Catenelle, che ci conduce alla sovrastante valle di origine glaciale
del Pizzo: entrambi sono stati riconosciuti come Geoparco dall’Unesco. Il borgo
lo raggiungeremo in treno.
Info: Fabio Capperi 339 8076325
Equi Terme è un borgo medioevale arroccato tra i
torrenti Lucido e Fagli, ai piedi del Pizzo d'Uccello, nel territorio comunale
di Fivizzano e precisamente nella Valle del Lucido a 250 m s.l.m. E’ Incluso nel
Parco Regionale delle Alpi Apuane ed è conosciuto fin dall'epoca romana per le
straordinarie proprietà delle sue acque solfuree che sgorgano a 27 gradi,
particolarmente adatte per la cura di problemi dell’apparato respiratorio, della
pelle e per le malattie osteo-articolari. Equi Terme comunque è soprattutto in
grado di proporre un'interessante offerta naturalistica e paleontologica, con il
Complesso Carsico e Paleontologico delle Grotte di Equi, di interesse
naturalistico, la Tecchia archeologica, l’ApuanGeoLab ed il Solco di Equi.
Maggiori informazioni
https://www.grottediequi.it/il-territorio/equi-terme/
Un po’ di storia ……………
Arroccato alle pendici del
Pizzo d'Uccello, una
vetta delle
Alpi Apuane settentrionali che domina la porzione più alta
dell'antistante
valle del Lucido, il paese è attraversato dai fiumi Lucido e Rio Catenella e
deve la sua denominazione alla presenza di sorgenti termali di acque
sulfuree. Tra il
borgo e il Pizzo d'Uccello si snoda poi il
canyon roccioso denominato "Solco di Equi", risultato di fenomeni geologici di
epoca glaciale e sede di un importante bacino marmifero.
L'origine del nome "Equi Terme"
sembra derivare dal termine latino acquae riferito alla presenza delle
sorgenti di acque
termali che
scaturiscono dal bosco, dalle numerose grotte e dai torrenti intorno al paese e
difatti tali sorgenti furono utilizzate già in antichità, come testimoniato dai
ruderi delle terme di epoca romana che furono interrati nel
1894 per la
costruzione del moderno complesso termale. Il luogo comunque risulterebbe
abitato fin dall'epoca preistorica, come testimoniato dai ritrovamenti presso le
grotte della Tecchia e della Buca.
Un'altra ipotesi farebbe invece
risalire l’origine del termine "Equi" alla famiglia romana degli Aequi, quando
intorno al
179 a.C. i numerosi
centri che sorgevano in Lunigiana prendevano nome da quello delle popolazioni
sconfitte che abitavano il territorio o dal nome dei capitani che ne ottenevano
la conquista.
Secondo la tradizione locale
inoltre, il borgo fu invece fondato da alcuni esuli di Luni in seguito alla
distruzione di questa città da parte dei
Normanni.
Intorno all'anno mille Equi
Terme afferiva alla
pieve di Codiponte, che nel
XIV secolo passò
sotto il controllo di
Spinetta il Grande il quale, nel suo testamento, lasciò tutto ai
Marchesi di Fosdinovo. Nel
1366 quest'area
venne quindi unita al dominio dei signori di Castel dell'Aquila di
Gragnola. Nel
1418 finì sotto la protezione della
Repubblica di Firenze, per passare poi al
Castiglione del Terziere di
Bagnone nel
1451 e infine nel
1726 venire inserita
nel territorio di
Fivizzano].
Prima del
XIX secolo e dell'avvento dell'industrializzazione legata all'estrazione del
marmo, le
popolazioni della valle del Lucido, così come quelle della altre valli
appenniniche e
apuane, vivevano di pastorizia, agricoltura e sfruttamento dei boschi. Nella
seconda metà del XX secolo poi, importanti società industriali straniere come
Walton, Good & Cripps e Marble Valley aprirono
cave e segherie di
marmo ai piedi del monte Pizzo d'Uccello, portando al progressivo cambiamento
dell'economia di Equi Terme e del territorio circostante.
Un avvenimento importante per
lo sviluppo turistico del paese fu l'avvento della linea ferroviaria Aulla-Lucca.
I primi studi e il progetto risalgono al
1850, ma i lavori
iniziarono solo nel
1879 e furono
interrotti e ripresi più volte. Il primo treno giunse a Equi Terme il 21 agosto
1930, quando fu
inaugurata la tratta Monzone-Equi Terme. Per quasi 30 anni Equi Terme fu
capolinea del binario tronco proveniente da Aulla e ci volle più di un secolo
prima che il 21 marzo del
1959 l’intera linea
fosse completata e inaugurata dal
Presidente della Repubblica
Giovanni Gronchi. Dei tre binari originari, un tempo utilizzati per lo scambio del
materiale estratto dalle cave, per il turismo termale e per la costruzione della
galleria del vicino paese di
Ugliancaldo, ne
rimane adesso solo uno.
Da ricordare ancora una volta
che presso Equi Terme è presente una serie di sorgenti termali di acqua
sulfurea, sodio-clorurata per interazione con le evaporiti triassiche, di cui
già gli antichi romani avevano riconosciuto le proprietà curative, provato dalla
pavimentazione marmorea rinvenuta nel luogo dove sorge l'odierno stabilimento
termale che fu costruito alla fine del
XIX secolo e
acquistato dal Comune di
Fivizzano e riqualificato, nel 1989.
In epoca moderna, le sorgenti
furono usate dagli abitanti della Valle del Lucido, come viene testimoniato da
Giovanni Targioni Tozzetti
nell'accurata descrizione della
Regione Toscana in
una sua opera intitolata Viaggi per la Toscana. La descrizione risale
all'anno
1777: «Alle falde
dell'Appennino detto Pizzo d'Uccello, dalla parte di levante, opposto al
castello di Equi, scaturisce una fonte di acqua calda, la quale nel mese di
settembre visibilmente fuma e viene creduta della medesima natura di quelle dei
bagni di Lucca, ed atta alla guarigione di molti mali, come è stato conosciuto
per varie esperienze. Viene stimata nel paese un tal acqua sulfurea, perché
tinge il terreno ed i sassi dove scola il color zolfo, ma per altro non ha
fetore alcuno di tale minerale. Non vi è vicino alla sorgente altro che una
piccola capanna la quale serviva da ricovero a coloro che vi venivano a
bagnarsi, ma vi si richiederebbe a tal uso un comodo edifizio. Poco di quanto
diversa, perché salsa, e bagnandovisi, guarisce la rogna, scabbia e simili mali
cutanei.»
Altra particolarità del borgo è
Il Parco culturale delle Grotte di Equi Terme, istituito per far
conoscere il complesso carsico sotterraneo di Equi, un insieme di cavità,
cunicoli, sale, stalattiti, stalagmiti e laghi sotterranei, come anche,
risalendo il paese di Equi Terme attraverso il Solco di Equi,
uno stretto e profondo canyon naturale, formato
dall’erosione del torrente Catenelle, costeggiato oggi dalla strada marmifera
che porta alla soprastante valle di origine glaciale del Pizzo d’Uccello.
Il solco di
Equi, insieme al complesso carsico delle Grotte, fa parte dei Geositi più
importanti del Parco Regionale delle Alpi Apuane e recentemente è stato
riconosciuto come Geoparco sotto gli auspici dell’UNESCO.
7 giugno: l’anello del monte Altissimo.
Partendo dal
rifugio Città di Massa a Pian della Fioba (m.900) e oltrepassato un bosco di
castagni, si inizia a salire per rocce, prati e rada vegetazione verso il passo
della Greppia (m.1209) in circa h.1. La zona è molto bella e panoramica e chi
non volesse proseguire per il m.Altissimo potrebbe benissimo fermarsi qui, a
godere dello splendido panorama sulle cave di marmo sovrastanti. Chi proseguirà
invece, raggiungerà il passo degli Uncini (m.1366) e quindi il m.Altissimo
(m.1589) in altre h.1,30. Tenete però presente che il sentiero di crinale, dal
passo della Greppia, richiede esperienza e fatica (per l’intero anello h.4,5/5)
e quindi chi vuole completare l’anello dovrà obbligatoriamente consultarsi
prima col referente.
Info : Rossano Poggi -
0586 375131 (ore serali) o 331 1131900
MONTE
ALTISSIMO
dall'ottimo
sito web
http://www.escursioniapuane.com/SDF/MonteAltissimo.html
di Fabio Frigerio, cui indirizziamo direttamente per interessanti ed esaurienti
approfondimenti, sia storici che geofisici che escursionistici.
È un monte formato
interamente da marmo che, dal mare, appare talmente imponente da meritare un
appellativo che non gli compete, raggiungendo la sua vetta solo i 1589 metri.
Esso è interamente
compreso nel comune di Seravezza (Lucca), a sud, nel versante a mare, guarda la
Valle del Serra mentre a nord guarda il canale delle Gobbie.
Il versante sud è
orrido e cade verticalmente per oltre 700 metri presentando, da lontano,
l’aspetto di una parete strapiombante. In realtà è possibile distinguere una
vera e propria parete Sud che fa capo alla vetta, mentre a ridosso della cresta
sud-est che poi si prolunga a sud verso Falcovaia, è possibile distinguere un
ampio anfiteatro che fa riferimento alle due vette minori: quota 1460 e 1471 in
cui si stagliano le famose cave della Tacca Bianca (nome collettivo usato per le
cave meridionali, tra cui la cava omonima).
I versanti
settentrionali e orientali, delimitati dalle creste Ovest e Sud-est, sono invece
boscosi e degradano meno ripidamente a valle dove passa la strada che da Massa
porta ad Arni e in Garfagnana.
Si sale facilmente
alla vetta dal Passo degli Uncini con il sentiero 143 facendo comunque un po’ di
attenzione per alcuni punti esposti e scivolosi con la pioggia. Decisamente più
semplice è la salita dalle cave del Fondone sempre con il 143.
In vetta è stata
eretta una nuova croce il 28 ottobre 2007 molto imponente e ben visibile da
lontano.
Il panorama che si
gode dalla vetta è molto bello sia sul mare che sulle Apuane settentrionali e
meridionali.
Il monte è
profondamente segnato da numerose cave che si aprono sui suoi fianchi ed
arrivano anche a grande altezza, la maggior parte sono, comunque, ormai
abbandonate.
Distinguiamo un
gruppo settentrionale di cave presso la cresta nord, un gruppo orientale a nord
delle quote 1471 e 1460 (tra cui la cava del Fondone), un gruppo meridionale
alla testata della valle del Serra (tra cui quella della Tacca Bianca), diviso
in due bacini con un’appendice nella zona di Falcovaia a sud-est, quest’ultima è
la zona oggi più attiva.
la Cava della Tacca
Bianca cui si perviene con percorso aereo sul fianco del monte (è l’apertura
maggiore e più alta).
Michelangelo Buonarroti, tra il 1518 e il 1520, esplorò la zona di
Seravezza e le pendici meridionali del Monte Altissimo alla ricerca di
giacimenti di marmo destinati alla facciata della Basilica di S. Lorenzo a
Firenze su commissione di papa Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico della
famiglia de’ Medici. Fu attivata la cava della Cappella, situata sotto la pieve
di San Martino, che produsse marmi che però non vennero usati per la chiesa
fiorentina per un ripensamento del papa. Il grande scultore probabilmente intuì
le potenzialità della zona, ma la vera escavazione[2] iniziò solo alla fine del XVI secolo e raggiunse livelli
importanti di produzione solo con Henraux a partire dal 1800. Quindi è
assolutamente falso che Michelangelo abbia ricavato dalle cave del monte
Altissimo il marmo per le sue grandi sculture.
La prima salita
invernale risale al 5 gennaio 1896 e fu opera di C. e Lorenzo Bozano del cai
ligure.
L’Altissimo nella poesia
Il monte ispirò anche il poeta Gabriele d’Annunzio[3]:
Mutila dea,
tronca le braccia e il collo,
la cima
dell’Altissimo t’è ligia.
È tua la
rupe onde alla notte stigia
discese il
bianco aruspice d’Apollo.
La cruda
rupe che non dà mai crollo,
o Nike, il
tuo ventoso peplo effigia!
La violenza
delle tue vestigia
eternalmente anima il sasso brollo.
Quando sul
mar di Luni arde la pompa
del vespro
e la Ceràgiola è cruenta
sotto il
monte maggior che la soggiòga,
sembra che
dispetrata a volo irrompa
tu negli
ardori e sul mio capo io senta
crosciar la
foga dell’immensa foga.
I VERSANTI
DEL MONTE
Cresta ovest
Inizia dal passo
degli Uncini e arriva alla quota 1456 da cui continua, per la facile cresta,
fino all’antecima ovest e subito dopo alla vetta. Il sentiero 143 si mantiene
più a settentrione a mezza costa della cresta che recupera solo nella parte
finale.
Versante nord
Dalla zona delle
Gobbie (Bar Ristorante Le Gobbie, anticamente Casa Henraux) sale la cresta nord
fino all’antecima ovest del monte. La cresta è incisa dalla marmifera per le
cave settentrionali del monte ormai abbandonate. È boscosa e, in alto, rocciosa
con vegetazione che tende a diminuire salendo.
La zona nord-est è
occupata dalle cave orientali dell’Altissimo (Cave Fondone) che si sviluppano da
1200 a 1300 metri e sono unite da una marmifera al Cipollaio e da un’altra alle
cave settentrionali. Esse sono delimitate a sud dalla cresta sud-est.
Naturalmente la zona è stata profondamente modificata dall’attività estrattiva e
qua passa il sentiero 142 per il passo del Vaso Tondo e per Falcovaia che, in
parte, non è identificabile.
Cresta sud-est
Scende dalla vetta
fino al passo del Vaso Tondo che si trova tra due quote secondarie (1471 a ovest
e 1460 a est ) e si prolunga fino a Falcovaia. Sulla cresta si sviluppa un’altra
parte del sentiero 143 per la vetta che guarda anche sulla parete sud e incontra
diverse postazioni di guerra legate alla Linea Gotica.
Parete sud
Anche se il monte
non è particolarmente frequentato dagli arrampicatori questa parete permette
alcune interessanti vie di roccia con vari gradi di difficoltà partendo dalla
vecchia marmifera per le cave più alte.
COME SI SALE
Il sentiero 143
permette di salire alla vetta sia dal Passo degli Uncini che da quello del Vaso
Tondo con percorsi molto interessanti e panoramici, dagli Uncini il sentiero è
considerato difficile perchè un po’ esposto.
Inoltre è possibile
percorrere un anello partendo dalle Gobbie, salendo al Passo degli Uncini sia
direttamente con il 33 sia con il 41 per la Foce del Frate, poi alla vetta e al
Passo del Vaso Tondo da cui si torna alle Gobbie con la marmifera delle cave
settentrionali che va a recuperare il sentiero 33.
Il monte diventa
insidioso con la neve e, in particolare, con il ghiaccio.
LA VETTA
La vetta è molto
panoramica sia sulla costa ligure e tirrenica che sulle Apuane settentrionali e
centrali. Il pianoro sommitale permette di sostare in contemplazione e
meditazione.
In vetta è stata
eretta una nuova croce, il 28 ottobre 2007, molto imponente e ben visibile da
lontano.
LE CAVE
Il monte Altissimo
è profondamente segnato da numerose cave, ormai abbandonate, che arrivano a
grande altezza, tutte coltivate dalla Società Henraux. Le uniche ancora attive
si trovano nella zona di Falcovaia alla fine della cresta sud-est del monte e a
esse è dedicato un articolo di questa rubrica.
Le cave
settentrionali
sono situate presso la cresta nord, superano i 1000 metri di quota
e sono ormai abbandonate e hanno lasciato un’ampia ferita bianca ben visibile da
lontano. In zona rimangono edifici e altri manufatti di servizio per l’attività
estrattiva. Una marmifera le collega alle cave orientali mentre un’ampia via di
lizza scende verso la zona delle Gobbie.
Le cave orientali
sono situate nel versante orientale del monte Altissimo a nord
delle quote 1460 e 1471 e del Passo del Vaso Tondo. Si arriva facilmente alle
cave con il sentiero 31 che inizia prima dell’ingresso della galleria per Arni o
con una marmifera che si stacca dal sentiero 33. È possibile anche arrivare dal
Cipollaio con strada asfaltata che poi diventa marmifera, segnata ancora come
sentiero 31. La quota è circa 1200 metri, la zona è ricca di edifici e reperti
dell’antica attività estrattiva tra cui un’ardita via di lizza, infatti anche
esse sono ormai abbandonate. Sono poi presenti alcuni vasconi per la raccolta
delle acque. Sono anche conosciute con il nome collettivo di cave del Fondone.
Le cave meridionali
si trovano in testata alla valle del Serra e comprendono cinque
cave tutte abbandonate. La zona fu forse esplorata da Michelangelo Buonarroti
alla ricerca di giacimenti di marmo statuario per le sue opere. Egli,
probabilmente, si rese conto della potenzialità della zona, ma lo sfruttamento
iniziò solo alla fine del XVI secolo con estrazione di ottimo statuario. Le
storie su opere di Michelangelo scolpite con marmo dell’Altissimo sono
totalmente prive di fondamento.
Lo sfruttamento
divenne più intensivo con Henraux a partire dal 1800 e per seguire le migliori
vene di marmo si salì progressivamente sempre più in alto rendendo oltremodo
difficoltoso l’accesso anche per i cavatori.
Viste dal basso le
cave sono le seguenti: Cava Mossa; cava Macchietta e cava Fitta (abbastanza
vicine); cava dei Colonnoni e cava della Tacca Bianca (anch’esse abbastanza
vicine). Le ultime quattro sono tutte nella stessa zona, comunicano o
comunicavano tra loro e sono ben visibili specialmente dal Picco di Falcovaia e
lasciano sbalorditi per l’arditezza della posizione.
·
Cava Mossa. Anche della Mossa e in passato Vincarella. È
quella più bassa situata a circa 851 metri di quota alla base della cresta per
la quota 1460. Detta anche cava Michelangelo dal nome della società che la
gestiva, in subappalto dalla Henraux, la “Michelangelo Marmi srl” di Querceta.
La cava è abbandonata ed è molto panoramica e impressionante per l’escavazione
della parete del monte che si sviluppa per almeno un centinaio di metri in
verticale. Il ravaneto della cava segna profondamente il versante meridionale
del monte. La cava è attraversata dalla marmifera per le cave più alte.
·
Cava Macchietta. Si trova a quota 1081 metri. Vi si perviene con
la marmifera da Azzano e dalla Polla con deviazione a destra rispetto al
percorso per la cava dei Colonnoni. Il piazzale è molto panoramico sulla
sottostante cava Mossa, sul Picco di Falcovaia che si trova proprio di fronte e
sulle sovrastanti cava Fitta e Tacca Bianca. La cava si sviluppa, estremamente
suggestiva, nelle viscere della montagna ed è collegata con la sovrastante cava
Fitta. Dal piazzale una ripida scaletta metallica supera un taglio di cava e
porta verso la cava Fitta e da qua alla Tacca Bianca. Nel gennaio 2010 la
società Henraux ha presentato un progetto per la riapertura della cava
innescando un’aspra polemica con ambientalisti ed Ente Parco.
·
Cava Fitta. Si trova a circa 1100 metri, ed è posizionata
tra la cava Macchietta e la Tacca Bianca. Si sale dal piazzale della cava
Macchietta tramite una scala metallica che supera un taglio di cava, poi segue
un tratto ripido sul marmo, ma scalinato e protetto da corde di acciaio che
porta a un primo ingresso della cava cui segue un’altro bel tratto scalinato nel
marmo che porta al piazzale principale della cava Fitta dove sono alcuni edifici
fatiscenti. Dal piazzale inizia una ripidissima e breve via di lizza per la cava
della Tacca Bianca. La cava si sviluppa dentro la montagna con visioni molto
suggestive ed è collegata all’interno con la cava Macchietta.
·
Cava dei Colonnoni. Abbandonata dal 1971, si trova a circa 1150
metri di quota. Da essa partiva il sentiero dei Tavoloni per la cava della Tacca
Bianca. Si arriva alla cava con la marmifera da Azzano e dalla Polla. Il
piazzale è molto panoramico sulla costa e la cava si sviluppa dentro la
montagna.
·
Cava della Tacca Bianca.
È la cava più alta del versante
meridionale del monte Altissimo e dà il nome a tutta la zona. Si trova a 1180
metri di quota ed è ormai abbandonata. Un ardito percorso su tavoloni la unisce
alla vicina cava dei Colonnoni mentre un sentiero arditissimo scavato nella
roccia la unisce al passo del Vaso Tondo. Si perviene a essa dalla cava
Macchietta passando per la cava Fitta e poi per ripida via di lizza. Il piazzale
è sorretto da un muraglione a picco sulla cava Fitta e in esso sono presenti
alcune vecchie costruzioni mentre la cava si sviluppa nelle viscere della
montagna. Essa forniva dell’ottimo marmo statuario.
INTORNO AL MONTE
Campo delle Gobbie
È lo spiazzo, a
quota 1037 metri, dove si trova attualmente l’albergo ristorante le Gobbie, nel
comune di Seravezza poco dopo l’uscita della galleria del Vestito che mette in
comunicazione Massa con Arni e la Garfagnana. L’albergo-ristorante,
impropriamente chiamato anche Rifugio, era in passato una delle tante case
Henraux della zona legate alle cave di marmo di proprietà di questo
imprenditore. Oggi è un buon punto di appoggio per gli escursionisti e di fronte
c’è un bel piazzale dove parte il sentiero 33.
Località La Polla
È il nome dato alla
zona chiusa dalla sbarra della marmifera Henraux alle pendici meridionali del
monte Altissimo. È situata a circa 600 metri e qua si trova la nuova Cappella
della Madonna della Tacca Bianca e, poco in basso, la vera e propria Polla, cioè
le sorgenti del Serra. La marmifera che passa qua sale poi verso la cava Mossa e
oltre.
Passo degli Uncini
Piccola sella a
quota 1362 metri al termine della cresta degli Uncini a sud-est. Essa si trova
in testa al Canale della Grotta Giuncona a nord-est mentre a sud si affaccia
sugli scoscesi versanti del monte Altissimo che guardano la valle del Serra. È
percorso dal sentiero 33 dalle Gobbie per il Pasquilio e qua arriva pure il 41
da Pian della Fioba per il Passo dell’Angiola, adesso rinumerato 143. È punto di
partenza per l’ascesa classica al monte Altissimo tramite il sentiero 143.
Passo del Vaso
Tondo
È un’incisione
nella cresta sud-est del monte Altissimo a quota 1382 metri. Il passo si
affaccia sull’anfiteatro della Tacca Bianca con la caratteristica forma che
giustifica il nome. Si arriva qua facilmente dalle Gobbie oppure con il sentiero
31. Da qua passa il sentiero 143 per il monte Altissimo, il 142 per Falcovaia e
il ripido sentiero molto esposto per le cave della Tacca Bianca.
SENTIERI
Marmifera Henraux
Inizia poco dopo
l’abitato di Azzano a circa 434 metri ed è asfaltata solo per poche decine di
metri. Lungo il percorso si incontra un’edifico (ex-casa Henraux) oggi
denominato Palazzo dell’Altissimo (ex casa Henraux) in località Mortigliani a
521 metri di quota, che, in futuro, dovrebbe diventare un Bed&Breakfast. Segue
la sbarra che chiude l’accesso alla marmifera in località la Polla, poi c’è la
cappella contenente la Madonna marmorea originariamente collocata alla Tacca
Bianca. La marmifera prosegue verso destra a tratti molto accidentata fino alla
cava Mossa che attraversa e continua a salire fino a un bivio (1028 metri): a
destra la strada sale ripida per la cava Macchietta mentre a sinistra continua
per dirigersi alla cava dei Colonnoni. Il percorso per la cava Macchietta è più
corto rispetto all’altro.
Sentiero dei
tavoloni
Dalle cave dei
Colonnoni iniziava una passerella aerea con ringhiera per la cava della Tacca
Bianca percorsa dai cavatori e non molto lunga. I tavoloni di legno erano
poggiati su supporti metallici infissi nella roccia ed erano quindi sospesi nel
vuoto. Ormai il sentiero non è più percorribile per il degrado sia delle tavole
che dei supporti metallici.
Sentiero del Vaso
Tondo
Unisce le cave
della Tacca Bianca con il Passo del Vaso Tondo. Questo sentiero è intagliato
nella roccia con una larghezza tra gli 80 e i 100 centimetri ed era usato dai
cavatori per raggiungere il posto di lavoro. Deve essere percorso con piede
sicuro e assenza di vertigini. Sono necessarie poi grande cautela e massima
concentrazione. Da evitare assolutamente le giornate di pioggia e quelle con
neve e ghiaccio. Partendo dalla cava il percorso è in leggera salita fino alla
base del canale erboso che sale al passo che è molto ripido e va percorso con la
solita attenzione a causa dell’insidioso paleo apuano. Richiede circa un’ora di
cammino.
Sentiero 31
Azzano (452m) -
Foce del Giardino (1022m) – Cervaiole - Strada marmifera per le cave del Fondone
- Arni (916m) innesto 144 -Strada Marmifera per il Passo Sella - Passo di Sella
(1500m) – Arnétola (ca 900m). Da Azzano, dopo una ripida scalinata, si immette
in una mulattiera che costituisce il sentiero, supera alcuni ruscelli fino ad
arrivare, a circa 750 metri, presso ad alcuni ruderi tra cui una pregevole
fornace a pianta circolare. Poi segue il bosco fino alla Foce del Giardino da
cui si inizia a vedere l’Altissimo con le sue impressionanti cave abbandonate.
Poi inizia la salita del pendio roccioso del Picco di Falcovaia in parte per
gradini e poi per una bella via di lizza impreziosita da rari piri marmorei fino
al piazzale di cava dove il sentiero è interrotto dai lavori della cava delle
Cervaiole. Dall’altra parte della cava il sentiero segue la strada asfaltata per
il Colle del Cipollaio per poi immettersi a sinistra nella marmifera per le cave
del Fondone. Dalla cava scende nel bosco fino alla galleria del Castellaccio,
dalla curva prima della galleria segue una via di cava ripida ed ormai inerbita
che porta alla Madonna del Cavatore, poi alle case Giannelli ed al Rifugio
Puliti da cui scende verso il parcheggio di Arni e la strada. Dal parcheggio
all’ingresso di Arni il sentiero diventa la marmifera per le cave della zona,
quasi tutte abbandonate. Supera una sbarra metallica e sale sempre ripidamente
fino al Passo Sella, superando piazzali di cava, edifici abbandonati ed il bivio
per la Cava Faniello. Ai lati del sentiero la cresta del Macina da una parte e
le pendici del Fiocca dall’altra. Il sentiero arriva al passo di Sella dal quale
la marmifera prosegue per le cave Ronchieri. La marmifera per il passo Sella,
destinata in realtà alle cave Ronchieri, costruita negli anni ’70 è diventata il
vecchio sentiero 31, che in buona parte ha ricalcato. In passato l’ultimo tratto
del sentiero rappresentava il collegamento da Vagli ad Arni ed è una bella
mulattiera che passa per boschi alla base del versante orientale del Sella.
Sentiero 33
È detto sentiero
dell’Omomorto. Foce di Campaccio (827m) – Passo Focoraccia (1059m) - Passo del
Pittone o Pitone (1151m) - Passo della Greppia (1200m) - Passo degli Uncini
(1380m) - Casa Henraux alle Gobbie (1037m) - Rifugio Puliti (1013m) – bivio 31
-Arni (916m). Il primo tratto è semplice, dopo il Passo Focoraccia un breve
tratto di corda metallica conduce al Passo del Pitone. Il tratto fino al passo
della Greppia deve essere percorso con attenzione. Poi sale ripido fino al Passo
degli Uncini da cui scende tranquillamente fino alle Gobbie. Qua il sentiero
entra nel bosco dove sale lievemente costeggiando le ultime propaggini del monte
Macina. Poi esce su roccia e paleo ed aggira la quota 1235 e passa poco lontano
dallo spiazzo dove si trova la Madonna del Cavatore. Costeggia alcune case ed
arriva al rifugio Puliti da cui scende alle case di Arni.
Sentiero 142
Cave Cervaiole (ca
1200m) – Foce di Falcovaia (1194) – Passo del Vaso Tondo (1380m) – Cave del
Fondone (ca 1200m). Il sentiero segue l’estrema cresta sud-est del monte
Altissimo anche su roccette esposte e poi arriva al passo del Vaso Tondo da cui
scende per agevoli rocce con un tratto scalinato fino alla cava del Fondone. Da
percorrere solo in giornate senza neve e ghiaccio. In realtà esiste un’altra
indicazione di inizio del sentiero presso la via di lizza, che si raggiunge
salendo la cava verso sinistra.
Sentiero 143
Passo degli Uncini
(1380m) - Monte Altissimo (1589m) - Passo del Vaso Tondo (1380m). Con la
revisione del 2008 parte dalla Foce del Frate, inglobando parte del vecchio 41.
Partendo dal Passo dell’Angiola (o Foce del Frate) costeggia ad est la catena
degli Uncini, ed è molto panoramico sulle Apuane dal
Sagro
al
Grondilice,
Contrario,
Cavallo,
Tambura,
Sella,
Macina,
Fiocca
e
Sumbra,
fino alle Panie. Il primo tratto è su facili roccette in discesa, poi entra nel
bosco ed ogni tanto ci sono finestre panoramiche sulla zona a mare. Dal passo
degli Uncini sale alla cresta del monte Altissimo, lo aggira sviluppandosi sulla
parete, poi risale tratti erbosi e rocciosi che riportano in cresta ed alla
vetta. La discesa è su marmo e sfasciumi, poi il sentiero curva diventando
panoramico sulla costa. Ci sono alcune opere difensive dei partigiani, una bella
vista su Falcovaia e quindi il Vaso Tondo.
Itinerario che
verrà seguito, con varianti: http://www.escursioniapuane.com/itinerari/itinerario.aspx?Id_Itinerario=18
14 giugno “in
Cammino nei Parchi”
In cammino nei Parchi: per
attivare un circuito virtuoso: camminare per conoscere, conoscere per amare
l’ambiente, amare l’ambiente per tutelarlo, promuovendo la cultura del
territorio attraverso i sentieri. In occasione della ottava edizione nazionale
di questa manifestazione, aderiremo ad una delle tante proposte presenti in
Toscana, scegliendo la migliore per la nostra associazione. I dettagli esatti
verranno comunicati in prossimità dell’evento.
Info : Rossano Poggi - 0586 375131
(ore serali) o 331 1131900
04/11 luglio -
Gitone estivo in Dolomiti:
Cortina d'Ampezzo, situata nel cuore delle Dolomiti venete in un’ampia valle
circondata da alte vette, è una delle località di montagna più famose del mondo,
mèta d’eccellenza per chi ama la montagna e i suoi paesaggi. Circondata da alte
vette, rese uniche dal colore rosato delle rocce, non solo è rinomata per i suoi
percorsi sciistici ma anche per i tracciati della Grande Guerra che toccano
gallerie e postazioni militari di questo periodo, oltrechè ovviamente per
l’incanto delle sue montagne innevate e per i suoi 400 chilometri di sentieri,
sia naturalistici che storici e interessanti tanto per i più allenati come anche
per chi desidera soltanto rilassarsi, ammirando i panorami mozzafiato intorno.
L’area delle Dolomiti è
riconosciuta Patrimonio UNESCO dal 2009 ed è qui che imposteremo il gitone
estivo di quest’anno.
NOTA: LE
PRENOTAZIONI SARANNO ACCETTATE FINO AD ESAURIMENTO POSTI DISPONIBILI
Info : Rossano Poggi -
0586 375131 (ore serali) o 331 1131900
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SECONDO SEMESTRE
NOTA: Preso atto
che la recrudescenza del virus ci dicono richieda distanziamento, con isolamento
raccomandato, mentre l'associazione esiste soprattutto come
punto di incontro e di socializzazione,
per evitare che ogni iniziativa si trasformi da motivo di relax in fonte di
complicazioni e stress, l'ass.Agire Verde annulla e rimanda le iniziative
programmate dal 25.10 (visto anche l'ultimo dpcm del 25.10)
Domenica
13 settembre: l’anello del monte Altissimo
proposta per il 7 giugno e non effettuata per covid
19, viene ripresentata oggi. Le caratteristiche del percorso sono visibili
cliccando sul link sopra che è lo stesso
Domenica
27 settembre: Bunker e camminamenti della linea gotica a Borgo a Mozzano
proposta per il 5 aprile e non effettuata per covid
19, viene ripresentata oggi. Le caratteristiche del percorso sono visibili
cliccando sul link sopra che è lo stesso
Domenica
11 ottobre: le
terme etrusche di Sasso Pisano
proposta per il 29 marzo e non effettuata per covid
19, viene ripresentata oggi. Le caratteristiche del percorso sono visibili
cliccando sul link sopra che è lo stesso
25 ottobre: risalendo il rio Calignaia
sospeso per norme covid 19
8 novembre – proposta di
educazione ambientale, dalla raccolta delle olive al frantoio
sospeso per norme covid 19
22 novembre: La riserva naturale regionale di
Calafuria sospeso per norme covid 19
6 dicembre, Lo Spedale degli Innocenti
sospeso per norme covid 19
Venerdi 11 dicembre – cena e foto proiezione
sospeso per norme covid 19
10 gennaio: L’anello dei Navicelli
sospeso per norme covid 19
iniziative del secondo
semestre di nuova elaborazione-
25 ottobre:
risalendo il rio Calignaia
Oggi risaliremo la valle scavata dal rio
Calignaia e dalla mano
dell'uomo, che dalle rocce della zona ha tratto il macigno, alla base di gran
parte dell'edilizia storica livornese.
Dal versante a mare ci porteremo nella macchia mediterranea, nella parte nord
della Riserva di Calafuria, recentemente diventato sito d’interesse comunitario,
e ne percorreremo i sentieri descrivendo un anello che alla fine ci riporterà
nuovamente al Castel Boccale, da cui saremo partiti la mattina.
Info : Rossano Poggi -
0586 375131 (ore serali) o
331 1131900
Dettaglio:
Lunghezza complessiva: 6,5
chilometri, con partenza e ritorno al cancello di accesso della Riserva di
Calafuria (in prossimità del Castello del Boccale); difficoltà: medio-facile;
dislivello: 300 metri circa; tipo di tracciato: sentieri e carrarecce; durata:
circa 3/4 ore.La partenza è all’altezza della Torre del Boccale ed è
contrassegnata dal cancello di accesso alla Riserva naturale di Calafuria, (per
raggiungere il punto esatto bisogna lasciare l’Aurelia – venendo
obbligatoriamente da sud si gira a destra sotto l’arco del Voltoncino, che passa
sotto la ferrovia, fino a trovare, dopo circa 300 metri, il cancello della
Riserva). Qui si prende lo sterrato meglio conosciuto come Via Dorsale: la
strada ha questo nome perché, se all’inizio costeggia il Fosso del Maroccone,
subito dopo inizia a salire puntando alla dorsale livornese in un sentiero
punteggiato di lecci e pini che, dopo un quarto d’ora scarso, si pareggia in uno
stradello che taglia la macchia mediterranea.
Quindi, il percorso curva a sinistra con vista sul Montaccio, colle
riconoscibile per la torretta antincendio sulla cima. A questo punto bisogna
superare (e ignorare) il bivio a destra (per la via degli Allori) e i due bivi a
sinistra (il primo per la via del Maroccone seguito a breve distanza da quello
per la via della Cava) per procedere dritti fino allo spiazzo dove il sentiero
maestro si biforca e bisogna andare a sinistra (la via del Telegrafo a destra
porta fuori strada). Il tour della Riserva prosegue in salita per circa 12
minuti fino alla torretta del Montaccio avvistata prima, dove un balcone
panoramico naturale permette di abbracciare con lo sguardo l’intera costa (da
Livorno a Piombino fino all’isola d’Elba e al Giglio). Poi, proseguendo sullo
stradello sterrato si abbandona la Riserva di Calafuria per salire ancora fino
al punto più alto dell’intero percorso (circa 317 metri s.l.m) dove il punto di
riferimento migliore è il bed & breakfast "Arpaderba", affacciato su uno scorcio
mozzafiato. A circa un’ora di cammino dalla partenza si raggiunge il
"Castellaccio"coi suoi punti di ristoro (siamo a 2 chilometri dal celebre
santuario di Montenero, che merita una deviazione dall’itinerario di oggi). Il
percorso a questo punto richiede di tornare indietro per la strada già fatta
verso il b&b "Arpaderba" e la torretta del Montaccio per continuare il tragitto
giungere, dopo una mezz’ora buona di discesa, allo slargo dove s’abbandona la
via Dorsale (che scende a destra) per imboccare a dritto la via del Telegrafo.
Qui si raccomanda una dose in più d’attenzione perché il sentiero si snoda nella
macchia molto fitta prima di sbucare nel piazzale dei Colombi dove si prende la
destra attraverso la via dell’Esbosco e, dopo un nuovo tratto di pineta
punteggiato di lecci e attraversato ancora da macchia mediterranea molto densa,
si arriva nella via degli Allori e si scende fino a superare piazzale Modesti e
poi il letto di un torrente ridotto a poco più di un fossato. Quindi, si risale
per pochi minuti e ignorando la sinistra si arriva sul mare. Andando poi a
destra si arriva su via del litorale per richiudere l’anello.
( testo tratto da
https://it.wikiloc.com/percorsi-escursionismo/anello-riserva-di-calafuria-33992865
) , dove si trova anche il percorso gps)
8
novembre – proposta di educazione ambientale,
dalla raccolta delle olive al
frantoio
Nelle campagne
intorno a Rosignano M.mo visiteremo un oliveto e un esperto ci racconterà tutto
sulle olive: i tempi ottimali della
loro raccolta, quando la maturazione è da considerarsi completa,
le diverse tecniche della raccolta stessa
(brucatura, pettinatura, bacchiatura) con la necessità che sia tempestiva, e
infine la loro frangitura e la loro trasformazione in olio. Nel pomeriggio poi
ci recheremo al frantoio, dove vedremo la macinazione della polpa e la
successiva separazione della frazione oleosa dagli altri elementi solidi e
liquidi. info: Leo
Panicucci 340 0033113
Dettaglio:
Oggi sarà proposta un’uscita didattica sulla raccolta delle olive e sulla
preparazione dell’olio, ricordiamo che la % di olio aumenta fino ad un dato
momento, a seguito della raggiunta maturazione, ma dopo si assiste solamente ad
una lenta e progressiva perdita di acqua, con il peso delle olive che diminuisce
e l’olio che si concentra, in termini %, all’interno del frutto.
L’olivo è un albero antico, originario del
bacino mediterraneo, e viene citato nella Bibbia, nella mitologia greca e
romana, come simbolo di pace, vittoria ed onore.
A rendere questo albero ancora più importante
però sono le sue virtù, potendo vivere fino a centinaia di anni, con foglie
coriacee e fiori piccoli che compaiono a giugno. L’oliva, il suo frutto, è di
color verde e consistenza dura e a completa maturazione diventa nera e carnosa.
A seconda delle condizioni ambientali un olivo può produrre mediamente da 15 a
30 kg di olive all’anno.
LA RACCOLTA DELLE OLIVE
Le olive possono essere raccolte a mano o
meccanicamente, con l’aiuto di grossi pettini che rastrellano le olive dai rami.
Nel Frantoio le olive raccolte sono trasformate in olio. Il processo inizia con
la “frangitura o molitura” delle olive, tramite la pressione delle macine che
ruotano lentamente. La pasta ottenuta dalla frantumazione delle olive è
distribuita su dischi di iuta (chiamati fiscole).
LA PREPARAZIONE DELL’OLIO
Le fiscole, accatastate in un carrello
mobile, sono sistemate in una pressa idraulica che, attraverso pressione
meccanica, separa la parte liquida della pasta (olio e acqua), dalla parte
solida (sansa). Successivamente l’olio è privato dall’acqua rimasta con
l’ausilio di una centrifuga ed è pronto al consumo. Questo metodo è chiamato
“spremitura a freddo” perché le olive sono frante a temperatura ambiente.
Questo metodo di spremitura permette di
ottenere una qualità migliore di olio ma abbassa fortemente la resa
quantitativa. Per questo spesso si preferisce la “spremitura a caldo”. Il calore
rende più semplice la lavorazione dell’olio, ma ne peggiora le qualità
organolettiche.
22 novembre: La riserva
naturale regionale di Calafuria
Recentemente codificato come sito d’interesse
comunitario, facente parte della riserva naturale regionale “Monti Livornesi”,
l’area comprende l’intero promontorio
di Calafuria e si prolunga
nell’entroterra, a includere per intero il bosco sovrastante. Caratteristica la
vegetazione a macchia mediterranea, con
piante aromatiche, arbusti, piccoli alberi e una presenza diffusa di piante
d’alto fusto come i lecci,
il pino d’Aleppo e quello marittimo: un luogo splendido che impareremo a
conoscere meglio, ben oltre la sua tipica ed a noi notissima zona costiera,
percorrendone i sentieri della parte più a sud.
info: Laura
Malevolti 338 9083212
Descrittivo: La Riserva Naturale Calafuria, a
pochi chilometri da Livorno, si estende per 116 ettari nella parte occidentale
dei Monti Livornesi, comprendendo l’intero promontorio di Calafuria e
prolungandosi all’interno, fino ad includere per intero il bosco che prende il
nome dal promontorio. Il poggio Montaccio, con i suoi 246 metri, è la quota più
elevata. La bellezza paesaggistica della Riserva è data dalle colline
dell'entroterra, disabitate e ricoperte dai boschi, che scendono dolcemente
verso il mare, e dalle particolarità della fascia costiera. La vegetazione è
costituita dalla macchia mediterranea con prevalenza di piante aromatiche,
arbusti e piccoli alberi e una presenza diffusa di piante d’alto fusto: lecci,
pini d’Aleppo e pini marittimi. Qui nidificano la magnanina, il passero
solitario e la rondine rossiccia, ma si possono avvistare anche il tordo
bottaccio e il marangone dal ciuffo, nonché numerosi mammiferi come l'istrice,
la volpe e il cinghiale. Dal punto di vista
storico l’area, più abitata in epoche remote, come dimostrano i
ritrovamenti di stazioni preistoriche risalenti da Paleolitico, in seguito non è
stata urbanizzata perché difficilmente accessibile. L’importanza
strategica del promontorio di Calafuria nel sistema difensivo granducale
è testimoniata dalla Torre del boccale e da quella di Calafuria,
fatte costruire nel XVI secolo dai Medici per difendere la costa dai
Barbareschi. Testo da:
https://www.visittuscany.com/it/attrazioni/la-riserva-naturale-di-calafuria/
6 dicembre,
Lo Spedale degli Innocenti
Costruito su progetto di Filippo
Brunelleschi nel 1419, fu il
primo brefotrofio d’Europa e
rimase attivo fino al 1875: i
bambini erano lasciati nella cosiddetta
ruota, una
culla di legno alla
quale si accedeva tramite una finestrella ed erano prelevati quando veniva
suonata una campanella. Questa visita ci impegnerà la mattina, poi, nel
pomeriggio, ci recheremo nel cuore della
Firenze medioevale, proprio dove sorgevano una volta le abitazioni degli
Alighieri, a visitare la casa di Dante, museo storico dove, attraverso documenti
e reperti, sono illustrate la vita e le opere del Poeta.
Info: Adriana Brontesi 328 3786239
Firenze: spedale degli Innocenti
Fu costruito su progetto di Filippo
Brunelleschi a partire dal 1419 per volontà dell’Arte della Seta come istituto
di beneficenza e assistenza all’infanzia. I lavori furono seguiti dal
Brunelleschi fino al 1436, anno in cui erano già terminati il loggiato, il
chiostro degli uomini, il portico e gli edifici adiacenti, la chiesa e le stanze
dei fanciulli. La costruzione proseguì sotto la direzione di Francesco della
Luna che si occupò degli spazi destinati alle donne, compreso il loro chiostro.
L’ospedale fu consacrato l’11 aprile 1451 dal vescovo Sant’Antonino Pierozzi.
L’uso dell’intonaco bianco e della pietra serena grigia scandisce con perfetta
proporzione e armonia la successione degli archi della facciata. Il loggiato,
uno dei massimi capolavori dell’arte rinascimentale, è completato dalla presenza
nei pennacchi tra gli archi di otto tondi in terracotta invetriata bianca e
azzurra, eseguiti da Andrea della Robbia. Questi furono collocati nel 1487 e
sono caratterizzati dalla presenza all’interno del tondo della figura di un
neonato in fasce (divenuto poi il simbolo dello Spedale), uno dei tanti bambini
abbandonati che erano accolti e allevati nell’ospedale. In antico i piccoli
venivano lasciati presso la pila dell’acqua santa, posta all’estrema sinistra
del porticato, poi sostituita da una ruota girevole, la cosiddetta “rota”,
definitivamente abolita solo nel 1875. Il loggiato è decorato da alcune lunette
ad affresco: la più antica, risalente al 1459, è quella sulla porta d’accesso
alla chiesa, dipinta da Giovanni di Francesco e raffigurante il Padre Eterno coi
Santi Martiri Innocenti, mentre le due lunette alle estremità e la volta che
fronteggia la porta principale sono opera di Bernardino Poccetti (inizio secolo
XVII); quella sopra la porta di destra, dipinta da Gasparo Martellini con Gesù e
i fanciulli, risale invece al 1843. La chiesa dell’ospedale, intitolata a Santa
Maria degli Innocenti, fu rimodernata nel 1786 da Bernardo Fallani e da Sante
Pacini, che affrescò la volta con Mosè salvato dalle acque. L’altare maggiore,
proveniente dalla distrutta chiesa di San Pier Maggiore, fu realizzato nel
Seicento in pietre dure, ed è ornato da un’Annunciazione di Mariotto
Albertinelli e di Giovanni Antonio Sogliani. In origine l’altare era decorato
con la Madonna in trono col Bambino e santi, dipinta nel 1488 da Domenico
Ghirlandaio, in collaborazione con Bartolomeo di Giovanni, autore della
predella, opera ora conservata nella Pinacoteca dello Spedale. Oltre al fonte
battesimale della fine del Trecento o degli inizi del Quattrocento, la chiesa
conserva anche una tela seicentesca di Matteo Rosselli, raffigurante la Vergine
in gloria fra i Santi Martino e Gallo. Il complesso degli Innocenti, oltre ad un
ricco Archivio storico, custodisce anche la Pinacoteca, allestita nel salone
soprastante il loggiato brunelleschiano, dove sono raccolti dipinti, sculture,
oggetti d’arte pertinenti allo Spedale, o provenienti da altre istituzioni
religiose soppresse: fra questi lo stendardo processionale dello Spedale
raffigurante la Madonna con i piccoli Innocenti, con il loggiato brunelleschiano
sullo sfondo, eseguito nel 1445 da Domenico di Michelino e poi restaurato agli
inizi del Cinquecento dalla bottega di Francesco Granacci. Proveniente
dall’altar maggiore della chiesa dello Spedale è la grande pala raffigurante
l’Adorazione dei Magi di Domenico Ghirlandaio (1488), uno dei suoi capolavori,
con predella di Bartolomeo di Giovanni. Bellissima è la terracotta invetriata
raffigurante la Madonna col Bambino, eseguita da Luca della Robbia nel 1448, e
di notevole interesse la Madonna col Bambino, angeli e santi di Piero di Cosimo
(1490 circa). Interessante documentazione della vita all’interno dello Spedale è
l’affresco di Bernardino Poccetti, nell’ex refettorio delle donne, raffigurante
la Strage degli Innocenti e scene della vita dei neonati. Fonte: Regione
Toscana, I Luoghi della Fede
Venerdi 11 dicembre – cena e
foto proiezione
convivio di
dicembre e 4° concorso fotografico agire verde:
Premesso che il convivium è principalmente
un’occasione d’incontro in cui ci ritroviamo per raccontarci come si è vissuto
l’anno che sta finendo, per scambiarci idee e opinioni sull’associazione e su
come si possa migliorare e/o modificare in taluni aspetti, quest’anno si è
inteso riprendere il discorso fotografico, interrotto nel 2015. Vedi a
http://www.agireverde.it/fotoambienti%202.htm
Concorso è una parola “reboante” ma, visto il
successo della proiezione riguardante Bormio 2019, si è inteso arricchire la
tradizionale cena con una foto proiezione a tema, senza troppo preoccuparsi per
il risultato tecnico finale.
Ciascuno di noi (che si partecipi
anche alla cena è indifferente)
dovrà presentare tre foto che raccontino in qualche modo l’estate e l’autunno,
“il colore delle stagioni”,
spaziando il più possibile con la fantasia e fissando il momento a proprio
gusto: un colore specifico, un atteggiamento particolare colto nelle persone
intorno, un panorama inequivocabilmente estivo o autunnale etc.etc………….. senza
paura che tanto siamo tra di noi e nessuno avrà intenzione d criticare nulla. Le
foto che ciascuno di noi preselezionerà saranno poi indirizzate a chi si
occuperà di porle nel proiettore, per essere visionate in occasione della cena.
Una prima selezione, una seconda selezione, con attribuzione di una preferenza a
due foto e infine una terza selezione con le tre immagini che avranno ottenuto
il maggiore punteggio ……….. da queste ne uscirà una soltanto, che si attribuirà
il premio.
A dire il vero sarebbe stato molto
interessante far precedere questa serata da un incontro al museo col
prof.Giorgio Galletta, autore di libri sull'immagine, dedicati proprio al colore
e al suo significato, e si era anche proposto per questo, ma le molte
complicazioni (mascherine, distanziamento, misurazione della temperatura, dover
lasciare il nome dei partecipanti, prenotare la sala per tempo etc.etc.etc.)
causate da una fase emergenziale più politica che sanitaria e che pare non avere
più fine, ci hanno fortemente demotivato e per adesso abbiamo lasciato stare,
salvo attendere tempi migliori. Nota: i dettagli esatti, anche della cena,
verranno comunicati per e mail a tempo debito poichè deve essere trovato un
locale che risponda ad alcuni requisiti precisi, sia ambientali che economici
............ ne riparleremo più in là.
Info: Luciano Suggi 339
8700530 e/o 0586 406468 ore serali
10 gennaio: L’anello dei
Navicelli
Il Canale dei Navicelli
collega Pisa con il porto di Livorno e fu progettato e realizzato nel 1500,
durante il regno di Cosimo I de' Medici, poiché la foce dell'Arno era paludosa e
interessata da forti correnti. In prossimità del ponte al Calambrone risaliremo
il canale, svolteremo in prossimità del bosco di Cornacchiaia, ci inoltreremo
nella tenuta di Tombolo e arriveremo quindi alle dune costiere prima di chiudere
il nostro percorso ad anello, prevalentemente boscato e in piano, scendendo
lungo la linea di costa.
Descrittivo:
L’iniziativa è semplice e inizia
imboccando una strada bianca che costeggia il canale, all’altezza del camping
mare e sole (ovviamente attraversiamo il viale del Tirreno), per arrivare dopo
circa 2 km all’idrovora che è usata per le bonifiche idrauliche della zona. Dopo
circa 1 km, e salendo verso nord (alla nostra sinistra), arriviamo a un’azienda
agricola ed entriamo per 1.7 km nella riserva naturale del WWF “bosco di
Cornacchia” il quale conserva alcuni aspetti della foresta “primigenia”, con la
presenza di numerose specie sempreverdi e termofile quali il Leccio e la
Sughera. Usciti dalla pineta, ci dirigiamo quindi verso il mare, attraversiamo
nuovamente il viale del Tirreno e si raggiunge la spiaggia, dove cammineremo sul
bagnasciuga per 2.5 km, tornando al punto di partenza.
Info : Rossano Poggi -
0586 375131 (ore serali)
o
331 1131900
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Altre da riproporre:
La
Riserva Naturale del Lago di
Sibolla
nasce per proteggere una piccola
ma significativa zona umida che si
estende per circa 60 ettari nel comune di
Altopascio e
rappresenta, dal punto di vista floristico, uno dei più importanti biotopi
palustri della Toscana.
Per un'ampia parte l'area palustre è circondata da prati incolti e campi tuttora coltivati, mentre
nelle parti sudorientale e orientale del bacino si trovano i boschi.
Il Lago di Sibolla,
rimasto incontaminato negli anni e rende bene l'idea di come
dovevano apparire i vicini Paduli di Fucecchio e di Bientina prima delle
bonifiche del secolo scorso. Sulle rive dello specchio d'acqua si possono
ammirare diverse specie di uccelli acquatici, tra
cui una colonia di aironi coloniali.
dettagli:
Il bacino della Sibolla, situato a circa 2,5 km. a nord-est di Altopascio, e’
costituito da un piccolo specchio lacustre circondato da un territorio paduloso.
Qui infatti si sono mantenute condizioni ambientali che hanno permesso la
conservazione di una flora interessantissima, ormai quasi totalmente scomparsa
altrove. Il laghetto di Sibolla presenta una forma allungata ed e’ diviso da una
strozzatura. Lungo circa 400 metri e largo 50, non e’ mai profondo piu’ di 3
metri. Non vi sono emissari e l’alimentazione dipende in massima parte dalle
acque meteoriche. Esiste invece un fosso di scolo, il cosiddetto “fosso di
Sibolla”, e si tratta di un emissario artificiale, come testimonia un decreto
del podesta’ di Lucca datato 22 Agosto 1263.
Circonda lo specchio d’acqua una caratteristica formazione che prende il nome di
aggallato o pollino.Tali formazioni vegetali erano un tempo comuni in tutte le
paduli della Toscana e la loro pecularieta’ ha attirato l’attenzione dei
naturalisti fin dal Settecento.
Gli aggallati durante i periodi di magra del Sibolla si posano sul fondo,
contribuendo al naturale processo di interramento del lago che va infatti
lentamente evolvendosi in torbiera. Dal punto di vista botanico, sono presenti
sia specie palustri che acquatiche. In copiosa quantita’ vi si trovano le ninfee
sia gialle che bianche; le brasche, l’erba vescia, le callitriche, il mirofillo,eccetera. Sebbene piu’ rara, e’ presente anche
l’aldrovanda, che e’ da considerarsi un relitto terziario accantonatosi a
Sibolla poiche’, durante piu’ mesi dell’anno, le acque raggiungono una elevata
temperatura – fino a 30° – e sono poverissime di calcio. Durante la visita
naturalmente incontreremo anche numerose specie di uccelli, tra le quali
garzette, aironi, falchi, oche eccetera.
Approfondimenti:
https://it.wikipedia.org/wiki/Lago_di_Sibolla
http://angoliditoscana.it/altopascio-lucca-riserva-naturale-del-lago-di-sibolla/
http://www.regione.toscana.it/documents/10180/14438515/Riserva_Naturale_Regionale_Lago_di_Sibolla_LU.pdf/a6f9205a-6985-46c0-9299-3c2fc5db69e1
galleria
fotografica -




Tempi:
visita al borgo h.1,5 – sosta pranzo h.1 - visita Sibolla h. 2 a/r tramonto
alle h. 17.50
Scheda di viaggio con direzione
indicativa: andata – Livorno-Arnaccio-Fornacette-Vicopisano-Bientina-Altopascio-
lago di Sibolla
(Riserva
Naturale del Lago di Sibolla, Via dei Sandroni, 15, 55011 Altopascio LU.
(h.1.00). Dopo Sibolla- Montecarlo e ritorno da Montecarlo x
medesimo percorso andata o autostrada
Dal
Gabbro al “ponte romano” sul botro Riardo (anello) Utilizzando la
nuova segnaletica del Parco dei monti livornesi, realizzata e messa in opera
grazie al lavoro delle associazioni aderenti al “progetto occhisullecolline”,
oggi percorreremo un interessante anello che si sviluppa ora in zone boschive,
ora per tratte agresti ora infine nella valle del botro Riardo, sotto i rilievi
di Monte Carvoli e del Monte Pelato, nel Parco di Camaiano, arrivando al cosi
detto “ponte romano di Castelnuovo della Misericordia”, benchè le sue origini
siano più recenti, verosimilmente tardo
settecentesche, costruito
per rendere raggiungibile una fornace di mattoni oltre il botro Riardo, anche durante
eventuali periodo di piena. L’escursione
inizierà dal paese del Gabbro per raggiungere i vecchi lavatoi, un itinerario
che veniva seguito dalle donne del Gabbro per andare ad attingere l’acqua ed a
lavare i panni dalla seconda metà del 1600 fino alla seconda del 1900.
Saremo parzialmente sul “sentiero del mille” (tracciato altomedioevale che
collegava i borghi collinari a Vada e quindi al mare, anche se la costa era
tuttavia raggiungibile ben prima, prendendo per la via vecchia della Marina
del m.Pelato), per boschi e viottoli di campagna che si alternano piacevolmente, in
un trekking di circa h.4/4.30, escluse le soste.
Dettaglio:
Dal parcheggio del Gabbro saliamo all’asfaltata e prendiamo subito per via della
Rosa, di fronte a noi e ben riconoscibile per la presenza di un ambulatorio
veterinario. Andiamo avanti per circa 10 minuti, uscendo dal paese e trovando
prima un’edicola votiva a sinistra e quindi un bivio che ci indica Colognole
andando avanti e Ricaldo invece a destra.Scendiamo per Ricaldo, ora nel bosco, ora uscendo verso i coltivi ed in altri 20 minuti siamo
ai lavatoi del Gabbro, di cui si ha notizia fin dal tardo ‘600. Una breve visita
e risaliamo quindi per una
stradina
sterrata (a destra) che ci riporta sull’asfaltata in circa 20 minuti. Prendiamo
ancora a destra per altri 10 minuti sulla provinciale ed iniziamo
l’avvicinamento al ponte romano, facendo attenzione a scendere alla nostra
sinistra (ben evidenti i cartelli che indicano la direzione da seguire, seguendo
il sentiero 199). Ci aspetta adesso un saliscendi di circa h.1, per zone
boschive, sterrati e canneti e viottoli lastricati di massi, vestigia degli
antichi tracciati, finchè, dopo aver guadato il botro Riardo, saremo ad un
cancello grigio dove gireremo a sinistra per altri 45 minuti, per raggiungere il
“ponte romano”. Il ritorno sarà per questo stesso sterrato, altre h.0,45 dunque,
ma andando questa volta a diritto per h.0,20 finchè, alla nostra sinistra,
troveremo un breve stradello a fondo chiuso dove noi gireremo invece alla prima
carrareccia a destra. In altre h.0,30 saremo al botro Sanguigna ed ai suoi
mulini e, girando a destra e seguendo il corso d’acqua termineremo la nostra
passeggiata, risalendo per circa h.0,20 (unica salita impegnativa) ed arrivando
al campo sportivo prima e dopo ancora al parcheggio dove avremo lasciato le
auto. Tot. Prima parte h.1 + seconda parte h.1.45/.Ritorno circa h.1.45
Calcolare le soste al ponte h.1 (sosta pranzo). Trekking di h.4.30/5 + soste.
Altre note
descrittive :
1) Gabbro -
Sorto sul versante orientale dei monti livornesi ha origini
medievali: mai citato dalle fonti come castello – nel ‘300 è definito ‘comune
rurale’ - l’agglomerato ereditò probabilmente la popolazione dei vicini castelli
di Torricchi e Contrino, forse distrutti già nel corso del basso-medioevo. Il
toponimo, dal latino glabrum, allude alla sterilità del suolo, ricco di
rocce di origine vulcanica - il “gabbro” appunto, così battezzato in onore del
paese, trovando un curioso parallelo nell’appellativo ‘Pelato’ dato al poggio su
cui il paese sorge.
La zona fu
oggetto, dal 1547 - con Cosimo I° de Medici - in poi, di ripetuti tentativi di
colonizzazione voluti dai Medici allo scopo di accrescere la produzione agricola
necessaria allo sviluppo del centro di Livorno. L’interesse granducale è
testimoniato anche dai resti di numerosi mulini ad acqua, risalenti allo stesso
periodo e che sorgevano lungo l’alta valle del Botro Sanguigna, facenti parte di
un più ampio sistema produttivo creato proprio allo scopo di approvvigionare di
grano la nascente e vicina città di Livorno. Dal 1886 visse a Gabbro il pittore
macchiaiolo Silvestro Lega che nella sua opera si è ispirato più volte al
paesaggio di questo ridente paese.
2) I vecchi lavatoi:
Situata fra
Gabbro e Torricchi, per secoli è stata usata da uomini e donne per l'acqua da
bere e per lavare i panni. Da Piazza Cavour, seguendo Via Rialto che scende
verso la vallata orientale si ha occasione di percorrere un sentiero molto
suggestivo che si snoda fra alberi di sughero ai margini della boscaglia. Questo
itinerario veniva seguito dalle donne del Gabbro per andare ad attingere l’acqua
e a lavare i panni alla fonte di Rialto. Tale fonte fu ristrutturata nel 1609 e
nel 1682 quando vennero costruiti i lavatoi e gli abbeveratoi per gli animali.
Prima di arrivare
alla
fonte è possibile scorgere una edicola votiva originaria del 600, che custodisce
un quadro della Madonna, ed alcuni cunicoli nei quali i Gabbrigiani si
nascondevano per sfuggire ai bombardamenti dell’ultima guerra mondiale. Si ha
notizia dei lavatoi fin dal 1682, quando vengono stanziati dalla Comunità del
Gabbro: "25 scudi per fare un arco e muro attorno alla Fonte del Ricaldo, per
far venire l'acqua a doccio, fare un abbeveratoio per le bestie.Il rifornimento
di acqua potabile avveniva presso le due fonti distanti un
chilometro dal paese sulla parte destra della strada che porta a Castelnuovo
della Misericordia. Veniva anche attinta a una fonte situata nella località
Riardo, anche questa distante oltre un chilometro dal paese, lungo
una strada secondaria che porta
verso
la località di Staggiano. Dopo
il
1945
la fonte fu chiusa e l'acqua
incanalata, a mezzo di un
piccolo acquedotto, fu fatta
affluire alla Fornace Serredi
per le necessità della
lavorazione. L'acqua veniva
trasportata giornalmente alle
abitazioni dalle donne che
portavano sulla testa brocche o
canestre piene di fiaschi e da
ragazzi con carrettino, con
corbellini anche questi pieni di
fiaschi. La lontananza delle
fonti causava fatica e perdita
di tempo specialmente
nell'estate quando si doveva
fare la fila perchè il getto
dell'acqua diminuiva. Le donne
spesso si recavano, portando
sempre grosse canestre in testa,
a lavare i panni ai due lavatoi
pubblici, cioè a quello di
Rialdo e a quello che si trova
dalla parte opposta, sulla via
che dal Gabbro porta a
Castelnuovo della Misericordia.
Due fonti di incerta potabilità,
una chiamata fonte di Giomo
sulla via Taversa Livornese per
Castelnuovo poco prima della
località Stregonie e l'altra
situata nelle vicinanze,
fornivano acqua, per far fronte
alle diverse necessità degli
agricoltori e dei possidenti, i
quali riempivano damigiane e
botticelle che trasportavano con
carri trainati da buoi o con
barrocci trainati da cavalli o
di ciuchi. Dopo il 1945 il
comune di Rosignano Marittimo,
dietro le insistenti richieste
dei paesani, deliberò di fare
l'acquedotto per portare l'acqua
potabile in paese. Fu allora
incanalata l'acqua delle due
fonti e, utilizzate altre
sorgenti a mezza costa della
collina di Poggio d'Arco, fu
creato un deposito sul Poggio
Pelato. Col passar del tempo le
fonti del paese furono integrate
da altre direttamente installate
nelle case avendo così gli
utenti l'acqua sempre a
disposizione senza fatica, con
vantaggi igienici e senza
perdita di tempo. Purtroppo
quando il Comune, per
approvvigionare l'acqua potabile
al paese di Nibbiaia, decise di
alimentare l'acquedotto con
altra acqua presa lungo il fiume
Sanguigna, in località Bucafonda,
la situazione peggiorò sia come
qualità sia come quantità.
testo da -
http://www.lungomarecastiglioncello.it/
Pellegrinaggi
medioevali nel territorio
livornese - Nell’area settentrionale delle Colline
livornesi sono presenti due
complessi storico-religiosi di
culto Mariano che hanno
caratterizzato dal punto di
vista sociale, economico e
religioso questa porzione di
territorio: il Santuario della
Madonna delle Grazie di
Montenero (1390) e l’Eremo di
Santa Maria alla Sambuca (1367).
In questi due luoghi i
pellegrini medioevali, di
ritorno da Santiago di
Compostela o diretti a Roma,
arrivano alla ricerca di riparo,
ospitalità e cibo e ci sono
testimonianze di un percorso che
dalla pianura livornese,
attraverso la via delle
Sorgenti, costeggiava la valle
del torrente Ugione per giungere
all’Eremo della Sambuca, da dove
poi proseguiva verso Roma lungo
la Via delle Parrane. La
presenza di testimonianze
religiose e dello storico uso di
strade e sentieri come percorso
di umiltà e semplicità ci offre
lo spunto per proporre un
particolare utilizzo dell’anello
di sentieri di questa porzione
del Parco che, come il
pellegrino di un tempo, noi
ripercorreremo.
Dettaglio:
-
Nell’area settentrionale delle
Colline livornesi sono presenti
due complessi storico-religiosi
di culto Mariano che hanno
caratterizzato dal punto di
vista sociale, economico e
religioso questa porzione di
territorio: il Santuario della
Madonna delle Grazie di
Montenero (1390) e l’Eremo di
Santa Maria alla Sambuca (1367).
In questi due luoghi i
pellegrini medioevali di ritorno
da Santiago di Compostela o
diretti a Roma, due delle tre
grandi mete spirituali
dell’epoca, insieme a
Gerusalemme, arrivano alla
ricerca di riparo, ospitalità e
cibo e ci sono testimonianze di
un percorso che dalla pianura
livornese, attraverso la via
delle Sorgenti, costeggiava la
valle del torrente Ugione per
giungere all’Eremo della
Sambuca, da dove poi proseguiva
verso Roma lungo la Via delle
Parrane oppure lungo il
principale percorso della Via
Francigena, verso Volterra e S.
Gimignano. I Gesuati gestirono
congiuntamente i beni dell’Eremo
della Sambuca e del Santuario di
Montenero (tra il 1450 e il
1650) ed è quindi probabile che
per questo siano aumentati i
contatti tra i due luoghi
facendo in modo che i devoti che
venivano in pellegrinaggio al
Santuario proseguissero poi il
loro cammino penitenziale o
devozionale verso l’Eremo della
Sambuca e viceversa. Oggi è
storicamente possibile
ricostruire un percorso che,
partendo dall’Eremo della
Sambuca sale a Valle Benedetta,
prosegue per un breve tratto
verso ovest sulla S.P. 5 di
Valle Benedetta fino a Poggio
Montioni e, deviando a sinistra
verso Campo della Menta e
Popogna Nuova, raggiunge la
Strada provinciale e Popogna
Vecchia per terminare, seguendo
l’attuale segnavia 140, a
Castellaccio e quindi, per la
via del Poggio, arrivare in
breve all’Aula Mariana ed al
Santuario, dove nel 1500 i
fedeli si recavano, dopo la fine
della pestilenza della città di
Livorno (1479) a rendere grazie
alla Madonna di Montenero. La
presenza di testimonianze
religiose e dello storico uso di
strade e sentieri come percorso
di umiltà e semplicità offre lo
spunto per proporre un
particolare utilizzo dell’anello
di sentieri di questa porzione
del Parco che, come il
pellegrino di un tempo noi
percorreremo, ritrovando forse
un’occasione per rallentare i
nostri ritmi quotidiani,
ascoltare la voce della natura
ed anche ascoltare noi stessi.
Il Percorso del Pellegrino si
sviluppa su una parte dei
sentieri presenti nella foresta
di Montenero, tutti
efficacemente e recentemente
segnalati con segnaletica a
terra dalle associazioni
aderenti al Progetto “Occhi
sulle Colline”. Il Percorso del
Pellegrino è formato da quattro
sentieri principali,
percorribili ad anello, e due
varianti che permettono di
“chiuderlo”. L’intero percorso è
segnalato con frecce segnavia.
Testo liberamente adattato da:
http://www.percorsodelpellegrino.it/pagine/pellegrinaggi.html
Maggiori dettagli sui percorsi a:
http://www.percorsodelpellegrino.it/pagine/i_sentieri.html
Noi oggi seguiremo un itinerario
breve, utilizzando i sentieri
138 (in discesa per h.0,40 fino
a Pian della Rena dove, a vista
della costruzione, si prosegue
per il sentiero 138, in salita
per h.0,20, fino
all’intersezione col n°140. Qui
si va a sinistra per il sentiero
134 (non segnalato), bellissimo
tratto nella macchia che scende
per h.1.45 ed arriva a un
evidente bivio dove noi,
lasciando il 134, scendiamo per
la bretella di raccordo 134 a,
altri h.0.20. Terminata la
discesa, talora difficoltosa,
siamo sul sentiero 136,
costeggiamo il botro del Molino
nuovo, passando un paio di ponti
in muratura, e proseguiamo in
leggera salita per h.0.45,
tornando quindi a Pian della
Rena dove saliremo nuovamente
per il sentiero 138 e quindi il
140 verso destra per arrivare in
h.0,45 all’asfaltata. Altre
h.0.15 e saremo di nuovo alle
auto. Nota: in prossimità di
questo percorso sono accessibili
sia 1) la fonte del Sasso Rosso
(dall’area di sosta del
Castellaccio si scende per il
primo sentiero a sinistra del
parcheggio – non segnalato- per
m.0,20). 2 la Grotta dei Banditi
(lungo il n°140, poco dopo lo
sbocco del n°138, una deviazione
a destra -non segnalata- che
scende per circa m.0,40.
Da:
http://www.agireverde.it/PARCO%20MONTI%20LIVORNESI.htm
Totale escursione, escluso
soste, h.4/4.30 circa.
I mulini ad acqua del
rio
Sanguigna - Sorto sul versante orientale dei monti livornesi Gabbro, ha origini
medievali e, benchè mai citato
dalle fonti come castello, già
nel ‘300 viene definito ‘comune
rurale’, probabilmente
ereditando l’agglomerato la
popolazione dei vicini castelli
di Torricchi e Contrino,
comunque distrutti già nel corso
del basso-medioevo. Con Cosimo
I° de Medici la zona fu oggetto,
dal 1547 in poi, di ripetuti
tentativi di colonizzazione
voluti dai Medici allo scopo di
accrescere la produzione
agricola necessaria allo
sviluppo del centro di Livorno,
come è testimoniato dai resti di
numerosi mulini ad acqua,
risalenti allo stesso periodo,
che sorgevano lungo l’alta valle
del Botro Sanguigna e che
facevano parte di un più ampio
sistema produttivo creato
proprio allo scopo di
approvvigionare di grano la
nascente e vicina città di
Livorno.
Info: Luciano Suggi - 0586 406468 (ore serali) o 339 8700530
descrittivo:
Dettaglio:
Dal parcheggio del Gabbro saliamo all’asfaltata e prendiamo subito per via della
Rosa, di fronte a noi e ben riconoscibile per la presenza di un ambulatorio
veterinario. Andiamo avanti per circa 10 minuti, uscendo dal paese e trovando
prima un’edicola votiva a sinistra e quindi un bivio che ci indica Colognole
andando avanti e Ricaldo invece a destra.Scendiamo per Ricaldo, ora nel bosco, ora uscendo verso i coltivi ed in altri 20 minuti siamo
ai lavatoi del Gabbro, di cui si ha notizia fin dal tardo ‘600. Una breve visita
e risaliamo quindi per una stradina
sterrata (a destra) che ci riporta sull’asfaltata in circa 20 minuti. Prendiamo
ancora a destra per altri 10 minuti sulla provinciale ed iniziamo a scendere alla nostra
sinistra, attraversando l'asfaltata e dopo circa m.200 (ben evidenti i cartelli che indicano la direzione da seguire, seguendo
il sentiero 199). Ci aspetta adesso un saliscendi di circa h.1, per zone
boschive, sterrati e canneti e viottoli lastricati di massi, vestigia degli
antichi tracciati, finchè, dopo aver guadato il botro Riardo, saremo ad un
cancello grigio dove gireremo a destra (a sinistra si andrebbe al ponte romano).
Altre h.0,45,
andando a diritto per h.0,20, finchè, alla nostra sinistra,
troveremo un breve stradello a fondo chiuso ma noi gireremo invece alla prima
carrareccia a destra. In altre h.0,30 saremo al botro Sanguigna ed ai suoi
mulini e, girando a destra e seguendo il corso d’acqua termineremo la nostra
passeggiata, risalendo per circa h.0,20 (unica salita impegnativa) per arrivare
al campo sportivo prima e dopo ancora al parcheggio dove avremo lasciato le
auto. Trekking di h.3.30/4 + soste, media difficoltà e con piccoli tratti da
guadare

La
valle del Chioma e la grotta dei banditi
L’escursione ci porterà dove il torrente Chioma è
raggiunto dall’affluente Quarata, per proseguire nell’ampia valle collinare
che lo conduce a Quercianella, ampio ed in un letto ben scavato.
L’itinerario è naturalistico, poiché passeremo per una delle zone dove
iniziò l’esondazione del Chioma, nel settembre ’17 , ma anche storico,
poiché da Nibbiaia ripercorreremo i sentieri che portavano alla macchia i
partigiani del Decimo Distaccamento Oberdan Chiesa della Terza Brigata
Garibaldi e quindi alla così detta “grotta dei
banditi”, dove trovavano momentaneo rifugio.
La “grotta dei banditi” è a
neanche un paio di chilometri dal Castellaccio ed era il luogo dove si
rifugiavano i partigiani del Decimo Distaccamento Oberdan Chiesa della Terza
Brigata Garibaldi, insieme ai tanti giovani alla macchia che, dopo l'8
settembre’43, fuggivano dal reclutamento forzato fra i repubblichini e dai
rastrellamenti dei tedeschi (ricordiamo che la strage di Sant’Anna di
Stazzema avvenne nell’agosto del’44 e quindi che la guerra era tutt’altro
che finita). La zona “Quarata” è impervia e boscosa ma, conoscendone i
sentieri, non sarà difficile arrivarci a partire da Nibbiaia. L’escursione
ha una notevole valenza paesaggistica ed evidentemente anche storica,
sviluppandosi per i 2/3 nel folto del sottobosco collinare e per 1/3 su
strade vicinali, ad uso dei numerosi poderi della zona. Dettaglio:
seguendo il sentiero 00 in discesa (segni bianco/rossi), si arriva al podere
del Gorgo dove, per una carrareccia, prenderemo la direzione Quarata per
salire verso una casa colonica bianca, in alto sulla collina e a destra. Ci
addentreremo quindi nella macchia, arrivando ad uno spiazzo aperto con
evidente bivio da dove, in discesa, ci porteremo alle grotte (dei banditi
dal tedesco banditen), da dove,
visitati questi
anfratti naturali, sempre in discesa, chiuderemo il nostro anello in circa
h.4.30 di cammino.I mulini lungo il torrente Lòmbrici.
Alle pendici delle montagne che circondano Camaiore si trova
un luogo
incantevole, in una zona ad alto valore
paesaggistico e storico la cui natura è incontaminata, con il
torrente che crea piscine naturali e cascatelle di rara bellezza.
Sulle pareti rocciose laterali esistono poi alcune tra le palestre
di roccia più interessanti dell’Italia centrale e lungo la via
d’acqua, riccamente verde, sono disseminati numerosi opifici di
epoca pre-industriale. Dei 40 mulini, pastifici e frantoi, tutti
azionati tramite l’energia idraulica ricavata dalla forza propulsiva
del torrente ed uno dei quali troviamo addirittura documentato a
Casoli sin dal 1347, rimangono tuttavia ad oggi soltanto dei ruderi,
benchè ne sia previsto un recupero strutturale. L’escursione non
presenta difficoltà e viene abbinata alla raccolta delle castagne
nei boschi sovrastanti che raggiungeremo in auto nel pomeriggio,
lasciando tuttavia la possibilità, per chi volesse camminare un po’
di più, di raggiungere il borgo di Metato per il "Sentiero do
Saudade" (h.1.30), dedicato ai soldati brasiliani che lo percorsero
nel 1944 per scollinare il monte Prana, dove ci ricongiungeremo
tutti insieme.
Lasciata l’auto in località Candalla (dove la strada
finisce), si attraversa il ponte sul torrente Lombricese e si
prosegue lungo il sentiero che costeggia il torrente stesso, e
trascurando la deviazione per Casoli a sinistra. Alla destra è ben
visibile un’imponente parete di roccia. Trascurare la deviazione a
destra (sentiero con balaustra) che conduce al torrente ed alla
vicina palestra di roccia. Si incontrano i primi ruderi (ex
pastificio) e si prosegue ancora per una decina di minuti lungo la
traccia, fino a giungere ad una biforcazione in prossimità di due
grossi massi. Pochi metri oltre i massi, un guado facilmente
superabile porta ad altri ruderi di vecchi mulini. Se si volesse
proseguire verso Metato o verso Casoli, entrambi luoghi
caratteristici meritevoli di essere visitati, basta salire a
sinistra e superare una grossa pietra sul sentiero per arrivare allo
stradello che porta a sinistra a Casoli (h.0,15) ed a destra a
Metato (h.1,30)..Per Candalla si chiuderà poi l'anello, in discesa,
seguendo le indicazioni nella piazzetta del paese.
Domenica
di marzo: l’area boschiva del Cisternino di Pian di Rota ed "il risveglio
muscolare"

Spesso
andiamo in cerca di aree verdi lontano dalla città quando invece le abbiamo e
belle proprio fuori porta, nella zona del Cisternino di Pian di Rota ad esempio.
A partire dai Bagnetti, una delle ultime costruzioni di
Pasquale Poccianti,
costruiti tra il
1843 ed il
1844 nella
campagna intorno alla città per rappresentare il nuovo centro di attrazione dei
villeggianti dell'epoca, stante la presenza di alcune polle d'acqua solfurea
idonee per lo sfruttamento termale, seguiremo il corso del rio Puzzolente nel
suo andare a nord verso il torrente Ugione, per sentieri recentemente riadattati
all’attività dei taglialegna e, seguendo campi incolti prima e tracciati nella
macchia poi, dove il leccio si alterna al Cerro e alla Rovella, descriveremo un
anello di circa h.3/3.30. L’escursione è quasi una passeggiata, con percorso
pianeggiante e nel verde, appena macchiato da ginestroni e cisto bianco che
cominciano a fiorire proprio in questo inizio di primavera e, se non
disturberemo troppo con il nostro chiacchiericcio l’avifauna locale, sarà bello
sentirsi accompagnati ora dai verso dell’Upupa, ora dal grido d’allarme della
ghiandaia che segnalerà la nostra presenza, come anche dal volo della poiana che
ci scruterà dal cielo. Nel corso dell'escursione un esperto introdurrà i
partecipanti alle metodiche del "risveglio muscolare", esercizi di preparazione
e completamento dell'attività motoria Percorso: dai Bagnetti prendiamo a sinistra del ponte e
devieremo per la salitella che troveremo alla nostra sinistra. Prima il bosco,
poi una radura ed ancora il bosco e saremo in vista degli archi dell’acquedotto
dove noi prenderemo a destra, lungo i campi e costeggiando una distesa di grano
selvatico. Andiamo adesso sempre a diritto per entrare in un bosco più fitto di
lecci e querciformi, trovando un bivio che dovremo prendere a sinistra

perché a
destra andremmo al monte La Poggia. Il sentiero diviene adesso più largo e battuto e ci
riporta alla radura di prima, da dove in poco tempo si ritorna, non prima però di aver
seguito un percorso nella macchia molto frequentato dai numerosi cinghiali che
vivono in queste selve.
I Bagni nell’Acqua… Puzzolente ………..
"Lasciammo a destra la strada
del Limone e da mano sinistra è una pozza o Lagunetta formata da una sorgente di
Acqua Sulfurea fredda, la quale a cagione del gran fetore, viene in Livorno
chiamata l'Acqua Puzzolente […] L'acqua assaggiata non ha sapore, né acido di
alcunasorta in se, ma puzza di Uova sode. Ella fa bene per i Mali cutanei". Così
scrisse Giovanni Targioni Tozzetti nelle sue "Relazioni di alcuni viaggi fatti
in diverse parti della Toscana" del 1786.Per sfruttare le proprietà dell’acqua
solforosa i proprietari della tenuta Limone affidarono all'architetto Poccianti
la realizzazione dei bagni della Puzzolente, iniziati nel 1843 e inaugurati nel
1844. L’edificio ha pianta rettangolare con due emicicli che contenevano ognuno
otto bagnetti. A poca distanza dietro le terme vi è un'altra costruzione a forma
di tempietto rotondo dove sono riunite e allacciate tutte le polle. Qui la pompa
aspirante raccoglieva l'acqua che veniva riscaldata e diramata nelle diverse
cabine. A quell'epoca Livorno, con le sue 12 sorgenti, era un famoso centro
termale. Anche la fonte Puzzolente ebbe successo, infatti nell'anno 1876
usufruirono di tali impianti circa 9.720 persone e furono praticati giornalmente
oltre 90 bagni. “Molto potremmo dire sopra felici risultati ottenuti dall'uso di
quest'acqua e si potrebbero ancora allegare numerosi attestati di persone
ammalate che ricuperarono la salute, o trovarono nell'acqua puzzolente
alleviamento alle loro sofferenze” (G.Orosi, 1845). Col volgere dei tempi però,
con la scoperta di nuove acque simili, con le comodità sempre maggiori che nuovi
stabilimenti offrivano ai frequentatori, dopo un lento e graduale decadimento, i
bagni della Puzzolente furono chiusi al pubblico nell'anno 1897 ed adibiti ad
uso di magazzini e di cantina di vino e le acque furono abbandonate per i fossi
adiacenti. Da -
http://www.webalice.it/diego.guerri/EeP/guida_boschi_rid.p
altra
proposta analoga:
l’area boschiva del Cisternino di Pian di Rota ed
"il risveglio muscolare" - Spesso
andiamo in cerca di aree verdi lontano dalla città quando invece le abbiamo e
belle proprio fuori porta, nella zona del Cisternino di Pian di Rota ad esempio.
A partire dai Bagnetti, una delle ultime costruzioni di
Pasquale Poccianti, costruiti tra il
1843 ed il
1844 nella campagna intorno alla città
per rappresentare il nuovo centro di attrazione dei villeggianti dell'epoca,
stante la presenza di alcune polle d'acqua solfurea idonee per lo sfruttamento
termale, seguiremo il corso del rio Puzzolente nel suo andare a nord verso il
torrente Ugione, per sentieri recentemente riadattati all’attività dei
taglialegna e, seguendo campi incolti prima e tracciati nella macchia poi, dove
il leccio si alterna al Cerro e alla Rovella, descriveremo un anello di circa
h.3/3.30. L’escursione è quasi una passeggiata, con percorso pianeggiante e nel
verde, appena macchiato da ginestroni e cisto bianco che cominciano a fiorire
proprio in questo inizio di primavera e, se non disturberemo troppo con il
nostro chiacchiericcio l’avifauna locale, sarà bello sentirsi accompagnati ora
dai verso dell’Upupa, ora dal grido d’allarme della ghiandaia che segnalerà la
nostra presenza, come anche dal volo della poiana che ci scruterà dal cielo. Nel
corso dell'escursione un esperto introdurrà i partecipanti alle metodiche del
"risveglio muscolare", esercizi di preparazione e completamento dell'attività
motoria, adesso che questo inizio di primavera comincia ad indurci di nuovo al
movimento.
L’Acquedotto del Limone, andando verso il
monte La Poggia (colline livornesi)

Nascosti
dal bosco e dimenticati ci sono i resti dell'antico Acquedotto di Limone, che
diede l'acqua a Livorno fra il '600 e l''800 prima della costruzione
dell’Acquedotto Leopoldino.
descrittivo -
All’altezza del ponte in cemento, dopo i vecchi bagni della
Puzzolente si va a destra e si procede a diritto per uno stradello che collega
tra di loro i diversi poderi e orti della zona e lo si segue per circa h.0,45.
Arrivati ad un bivio, lasciamo questa carrareccia e, dove vediamo una sbarra
bianco/verde che ci segnala che siamo nel Parco, giriamo ed entriamo nel bosco.
Risaliremo adesso il rio dell’acqua puzzolente per circa h.1, dovendolo guadare
di traverso per alcune volte. L’ultimo tratto di questo itinerario è in leggera
salita per altri h.0,15 (unico tratto con una pendenza noiosa) e ci vede sbucare
sotto il monte La Poggia, proprio sotto la zona della cava del Canaccini. A
questo punto prendiamo lo stradello asfaltato alla nostra destra e in discesa
per circa h.0,20, finchè troveremo un bivio che scende a destra (a sinistra
vedremo un viale alberato a cipressi, che sale), prima per h.0.30 di stradello
sassoso e dopo, entrando nel bosco per altre h.0.20, uscendone infine sulla
sinistra trovando una rete divisoria lunghissima che seguiremo, non lasciando il
bosco finchè non arriveremo alla zona degli oliveti. Scendiamo a diritto tra gli
olivi, leggermente sulla destra ed eccoci nuovamente alla fonte della
Puzzolente in altri h.0,45 (volendo possiamo anche restare a contatto della rete
divisoria ed andare a trovare lo stradello che porta alla fattoria didattica del
limone) dove prenderemo a destra per tornare alle auto.
Totale circa h.4 a/r
(escluse soste) – dislivello ca mt.300
L’acquedotto del Limone e
l’approvvigionamento idrico di Livorno
L’acqua di questo
acquedotto, proveniente da sorgenti della zona (ancora oggi utilizzate ad uso
agricolo locale), non serviva soltanto per la sopravvivenza delle popolazioni
residenti, ma anche per il rifornimento di navi ormeggiate presso il vicino
porto (porto pisano) e per il retroterra produttivo della zona,
certamente fiorente vista l’attività del porto nelle varie epoche. Il termine
Limone, con cui si definisce quest’area, non è da ricondursi a coltivazioni
dell’omonimo agrume; essendo più probabile invece che derivi dal termine latino
limus = fango, viste le caratteristiche del terreno che si
presenta particolarmente fangoso.
Edificato seguendo
un preesistente acquedotto romano che testimonianze archeologiche permettono di
datare in un periodo compreso fra il I sec. a.C. ed il IV sec. d.C, con un
approvvigionamento stimato per circa 8.000 persone, l’acquedotto di Limone venne
approvato nel 1601 da Ferdinando I dei Medici, onde sopperire alla continua
mancanza d’acqua potabile in cui si trovava Livorno e divenne la maggiore fonte
di approvvigionamento idrico della città fino alla fine dell’Ottocento.

Da
dire che durante il Medioevo la cittadina di Livorno ebbe un forte incremento
demografico con un costante aumento del fabbisogno idrico giornaliero,
soddisfatto tramite la raccolta dell’acqua piovana in grandi cisterne e col
prelievo da pozzi posti nelle vicinanze degli abitati. Nel 1421 a Livorno si
contavano circa 1.200 abitanti e l’acqua potabile veniva cercata in fonti sempre
più lontane ( gli incaricati che si procuravano e smerciavano quest’acqua erano
detti acquaioli). Con la costruzione della Fortezza Vecchia (a.1530 circa) poi
ed il conseguente ampliamento dell’abitato di Livorno, la popolazione salì fino
a circa 1800 persone e quindi aumentò ulteriormente la necessità di acqua per
cui, sotto il governo di Francesco I de’ Medici, fù indispensabile pensare ad un
grande acquedotto che poi fu il Granduca Ferdinando I a realizzare e che entrò
in attività nel 1611, con il nome di Acquedotto di Limone o delle Vigne (
sorgenti ubicate sul Monte la Poggia). Questo permise l’ampliamento di Livorno e
quindi della sua demografia fino al 1645, quando si raggiunsero gli 8.000
abitanti. Un grande acquedotto si era reso indispensabile anche perchè agli
inizi del 1600, con i lavori necessari per la costruzione dei fossi, furono
interrotte numerose falde freatiche locali con in più la salinizzazione di
numerosi pozzi all’interno della città. Per sopperire a questo grave problema ci
si rivolse a sorgenti sempre più lontane dalla città, in particolare a quelle di
Limone, finchè nel 1732, anche l’acqua proveniente da quest’area non si rivelò
insufficiente per una popolazione che ormai contava 24.000 persone e che
raddoppiò entro il 1789. Fù allora che il sovrano Ferdinando III approvò il
progetto dell’Acquedotto di Colognole (1792) che entrò in funzione nel 1816 per
essere infine sostituito agli inizi del ‘900 con quello di Filettole che, con
dovuti ammodernamenti, approvvigiona ancora oggi la città.
approfondimenti:
http://www.archart.it/livorno-sorgenti-di-limone.html
archeologia della costruzione
da
Montemarcello a Tellaro (anello)
Dalla cima del
promontorio del Caprione, immerso nella vegetazione mediterranea, lascia
senza fiato il panorama del golfo di La Spezia a ovest e della fertile
piana del fiume Magra, a est. Apprezzata dai Romani, che vi fondarono
l'insediamento di Luni, l'area fluviale alterna coltivazioni e zone
umide, ove nidificano uccelli acquatici, a settori assai compromessi. Il
parco, nato dalla fusione del precedente parco fluviale e dell'area
protetta di Montemarcello, rappresenta quindi un esperimento (riuscito!)
di riqualificazione di zone degradate, tant’è che la porzione di Parco
in cui andremo è veramente bella. Dal borgo di Montemarcello, con le sue
viuzze strette che s'intersecano ad angolo retto, ricordano un "castrum"
romano, saliremo verso l’orto botanico, splendidamente collocato sulla
sommità di Monte Murlo, e sosteremo a Tellaro, piccolo borgo marinaro
abbarbicato sopra
una penisoletta rocciosa digradante ed ultimo abitato della riva
orientale del Golfo dei Poeti. Il ritorno sarà
per un sentiero a
mezza costa, solo recentemente riaperto, attraverso
tratti di macchia mediterranea che si alternano alla folta lecceta.
Trekking di media difficoltà ma abbastanza lungo, con tratti segnalati
come esposti in cui fare attenzione e salite/discese su terreni
sconnessi (in particolare per Tellaro da Zanego). Tempo occorrente circa
5/5,30 ore.
Descrittivo:
Una volta giunti a Montemarcello si parcheggia e si entra
nel paese attraverso l'antica porta (scegliendo
il parcheggio che incontriamo seguendo l'indicazione stradale a destra.
A sinistra ne troveremmo un altro che per adesso trascuriamo).
Proseguiamo a destra della chiesa parrocchiale dove si scende lungo una
scalinata, al termine della quale si attraversa la strada asfaltata,
percorrendo circa 100 metri in una stradina tra le case. Attraversata
che avremo la strada e trovato un altro parcheggio, quello di cui si
diceva prima e che però ci priverebbe della visita al borgo ed anche ai
punti panoramici su punta Corvo, si scenderà l’asfaltata in direzione
Lerici per 5 minuti, trovando un sentiero segnato ( a destra) che
seguiremo fino a Tellaro (n°433).Nota - da adesso seguire sempre il
n°433.
Saliamo a
destra e ci inoltriamo per 30 minuti in una folta macchia a leccio,
uscendone per ritrovare l’asfaltata e, dopo 5 minuti e sempre alla
nostra destra, troviamo la continuazione del sentiero 433 per
Zanego/Lerici, salendo per altri 15 minuti, in un bosco a pini d'Aleppo
e lecci. Altro attraversamento dell’asfaltata ed altri 15 minuti, di
salitella col selciato in pietra e due muri a secco che lo delimitano,
ed arriviamo ad un punto panoramico, con apertura sul golfo dei poeti,
la Palmaria e Porto Venere (siamo ad un bivio col sentiero 437, per
l’orto botanico). Noi andiamo a diritto ed in altri 15 minuti siamo a
Zanego, nella zona dei coltivi e degli orti e poi tra le case della
piccola frazione.
Siamo adesso
nuovamente sull’asfaltata che attraversiamo, col ristorante Pescarino
davanti a noi, dove, seguendo i segni bianco/rossi tracciati sul muro (
alla nostra destra) scendiamo per 20 minuti il sentiero, tra le
abitazioni, arrivando alla segnalazione per Tellaro, davanti a noi ed in
discesa ed Ameglia, in discesa ma alla nostra destra. Fin qui sono
passate circa h.1.45/2.
Scendiamo per
Tellaro, facendo attenzione al fondo sconnesso ed a alcuni punti franati
e non troppo larghi. Altri 60 minuti e, passato il bivio per Portesone e
Lerici, infine arrivati a Tellaro (borgo incantevole!)in altri 10
minuti, torniamo indietro per il sentiero 444, recentemente riaperto dal
CAI di Sarzana e segnalato come con tratti potenzialmente pericolosi e
da percorrere con molta attenzione, ed in altre h.1,45 a mezza costa
torniamo a Montemarcello e volendo a punta Corvo (bellissimo promontorio
ma cui si arriva dopo una scalinata con ben 700 gradini!).
Trekking di media difficoltà ma
abbastanza lungo, con tratti segnalati come esposti ed in cui fare
attenzione. Salite/discese su terreni sconnessi (in particolare per
Tellaro da Zanego). Tempo occorrente circa 5/5,30 ore.

Zone
umide toscane e borghi: Il
bosco di Tanali e Vicopisano
Alle pendici del monte Pisano c’è un’area posta ai margini dell’ex
lago di Bientina, oggi
prosciugato per interventi
di bonifica intorno all’anno
1850, con flora e fauna
tipici delle aree palustri,
oggi sempre più rarefatte e
soggette ad azioni di
degrado, che vale la pena di
conoscere ed apprezzare: il
bosco Tanali.
La zona, con prati umidi periodicamente allagati, pagliereti,
boschi umidi ad ontano nero,
canneti e piccoli specchi
d’acqua, offre ambienti
importanti per la vita di
molte specie, sia botaniche
che animali, tipo l’avifauna
migratrice oppure i suoi
antagonisti rapaci (la
poiana, l’albanella o anche
il
falco
di palude, sebbene più
raro).
L’escursione, semplice ma suggestiva, ci condurrà gradatamente
verso la parte più interna
dell’area, attraversando in
sequenza le comunità
vegetazionali principali
(bosco mesofilo, bosco
igrofilo, canneto/cariceto)
terminando, con
l’attraversamento di un
pontile di legno, in un
capanno per l’avvistamento
degli uccelli.
Nota storica:
Il lago di Bientina o di
Sesto (Lacus Sexti) fino
alla prima metà
dell’ottocento costituiva il
lago più grande della
Toscana. Nel 1852 il
Granduca Leopoldo II di
Lorena, approvò il progetto
di bonifica di Alessandro
Manetti con il quale fu
realizzata la deviazione del
Canale Imperiale sotto
l’alveo dell’Arno grazie a
un condotto
sotterraneo per
mezzo di una cosiddetta
“botte”, cioè di un condotto
sotterraneo lungo 255 metri,
che permise il
prosciugamento del lago di Bientina.
Dal sito della regione
toscana
Riserva Regionale: BOSCO DI
TANALI (PI)
Atto istitutivo: Delibera della Giunta Provinciale di Pisa n. 77 del 12/04/2010
Estensione:
175 ettari
Descrizione:
Situata ai margini dell'ex
alveo del Lago di Bientina,
occupa un'area di 175
ettari, ricca di fauna e di
flora. Agli inizi del secolo
scorso il territorio, antico
lembo
del padule di Bientina,
fu oggetto di opere di
bonifica per il
prosciugamento del terreno
paludoso e di edificazione
di argini per convogliare al
suo interno le acque del rio Tanali e del rio della Valle
degli Alberi, determinando
la formazione di un " bacino
di colmata" .
Tale bacino,
con il trascorrere del
tempo, ha contribuito alla
creazione e al mantenimento
di un ambiente umido di
grande interesse
naturalistico. L'area
presenta attualmente una
grande varietà di ambienti
che, sotto l'aspetto vegetazionale, si possono
distinguere in quattro
differenti habitat.
L’'associazione vegetale più
importante è il bosco
igrofilo caratterizzato,
nelle specie arboree, dalla
prevalenza di ontano nero e,
nella flora tipica dei suoli
inondati, dalla presenza
della più grande felce
italiana e di varie liane
rampicanti. Nei terreni dove
l'allagamento è ridotto si
estende il bosco mesofilo,
caratterizzato nella sua
specie vegetale da ontano
nero, pioppo bianco, farnia,
sambuco e salicone. La parte
più orientale del bacino di
colmata è occupato da una
vegetazione uniforme a
cannella palustre. Il
canneto è estremamente
importante per la
nidificazione di molte
specie ornitiche, mentre
nelle parti più depresse del
canneto stesso vegetano i
grandi carici, una specie
palustre in via di
estinzione. All'interno del
cariceto è stata rinvenuta
la primulacea Hottonia
palustris, pianta rarissima
in tutta l'Italia
peninsulare e probabile
unico esemplare superstite
nel Padule di Bientina. Le
raccolte di acqua sottoposte
ad essiccamento estivo
vedono lo sviluppo di
vegetazioni di prato umido
che annoverano specie molto
rare come la Ladwigia
palustris. Le piante
idrofite, necessitando della
presenza d'acqua per
l'intero ciclo vitale,
vivono confinate in alcuni
canali e fossi; tra di esse
meritano menzione il morso
di rana, la ninfea bianca,
la rarissima erba scopina e
l'erba vescica, pianta
carnivora il cui nome
volgare è attribuibile alla
presenza di piccole
vescicole sulle foglie atte
alla cattura di piccoli
invertebrati acquatici. La
ricchezza degli ambienti
vegetazionali dell'area, la
cui variabilità è
incrementata dal periodico
allagamento di alcune zone,
che determina un’ulteriore
diversificazione stagionale,
favorisce la presenza di
numerose ed interessanti
specie animali. Le specie
vertebrate presenti sono
strettamente condizionate
dalla ricchezza di acqua;
tuttavia non manca una fauna
meno legata a questo
particolare ecosistema.
Negli ambienti palustri sono presenti specie nidificanti quali il
pendolino, la cannaiola, il
cannareccione, il bengalino
comune e la gallinella
d'acqua. Durante le stagioni
invernali è presente il
migliarino di padule in
migrazione e l'usignolo di
fiume che è nidificante. Tra
gli ardeidi è stata rilevata
la presenza dell'airone
cenerino, soprattutto in
autunno e inverno, della
garzetta durante il periodo
primaverile e dell'airone
guardabuoi. In estate sono
avvistabili l'airone rosso,
la garza ciuffetto e la
nitticora. Tra gli
anseriformi sono stati
osservati il germano reale,
l'alzavola (nella stagione
invernale) e la marzaiola. I
rapaci avvistabili con più
frequenza sono la poiana
(tutto l'anno), il nibbio
bruno (durante le stagioni
migratorie), il falco di
padule e la albarella reale
(in inverno). I falconiformi
sono rappresentati dal
gheppio e dallo smeriglio;
gli strigiformi da civetta,
barbagianni, allocco e
assiolo, presente durante la
stagione riproduttiva. Il
bosco è visitato
regolarmente dal picchio
verde e dal picchio rosso
maggiore. La presenza
d'acqua limitata al periodo
fra l'autunno e la primavera
costituisce l'habitat ideale
per le specie di anfibi che
trovano nel vicino bosco un
rifugio ottimale per
trascorrere gli stati di
ibernazione ed estivazione.
Le specie di anfibi
avvistate sono cinque: il
tritone punteggiato, il
rospo, la raganella, la rana
agile e il complesso delle
rane verdi. I mammiferi
presenti a Tanali sono il
cinghiale, l'istrice, la
volpe, la talpa e il riccio.
All'interno della riserva
sono presenti due strutture
che
fungono da osservatori,
fruibili su richiesta.
Indirizzo: Regione Toscana
Direzione Ambiente ed
Energia Settore Tutela della
Natura e del Mare Indirizzo
sede centrale: Via di Novoli
26 - 50127 Firenze
ll Padule di Fucecchio
Il Padule di Fucecchio ha
un’estensione di circa 1800
ettari, divisi fra la Provincia
di Pistoia e la Provincia di
Firenze; se pur ampiamente
ridotto rispetto all'antico
lago-padule che un tempo
occupava gran parte della
Valdinievole meridionale,
rappresenta tuttora la più
grande palude interna italiana.
La zona naturalisticamente più
interessante è situata
prevalentemente nei Comuni di
Larciano, Ponte Buggianese e
Fucecchio. Da un punto di vista
geografico, il Padule è un
bacino di forma pressappoco
triangolare situato nella
Valdinievole, a sud
dell’Appennino Pistoiese, fra il
Montalbano e le Colline delle
Cerbaie. Il principale apporto
idrico deriva da corsi d’acqua
provenienti dalle pendici
preappenniniche. L’unico
emissario del Padule, il canale
Usciana, scorre più o meno
parallelamente all’Arno per 18
chilometri e vi sfocia in
prossimità di Montecalvoli (PI).
Il valore di quest’area è
incrementato dalla sua
contiguità con altre zone di
grande pregio ambientale: il
Montalbano, le Colline delle
Cerbaie ed il Laghetto di
Sibolla, collegato al Padule
tramite il Fosso Sibolla. La
Riserva Naturale del Padule di
Fucecchio è dotata di strutture
per la visita che comprendono
anche tre osservatori
faunistici, uno dei quali
realizzato tramite la
riconversione di uno dei
caratteristici casotti del
Padule.
1) Riserva Naturale del Padule
di Fucecchio - Area Le Morette
(itinerario mattutino)
L' escursione di oggi ci porterà
nella Riserva Naturale del
Padule di Fucecchio ed in
particolare nell'area de Le
Morette, raggiunta dopo una
breve sosta al Centro Visite di
Castelmartini per prendere
visione dell'area prima della
nostra passeggiata
naturalistica.
Il sentiero è
pianeggiante e consente di
ammirare paesaggi suggestivi
fino ad arrivare all'antico
Porto de Le Morette.
L'itinerario ci porterà nel
cuore della palude a raggiungere
il Casotto del Biagiotti, da
molti anni adibito ad
osservatorio faunistico
dell'area protetta, con
un’ottima visuale sugli specchi
d’acqua della Riserva Naturale
e, se la stagione sarà stata
piovosa, sulle
numerose specie di uccelli
acquatici presenti: gli aironi
europei, che nidificano in
grandi colonie sugli alberi e
nel canneto, gli Svassi maggiori
nelle acque più profonde e gli
eleganti Cavalieri d'Italia
sulle rive degli argini.
Arrivati all'area Righetti (più
protetta) torneremo indietro per
portarci poi a Monsummano Alto
ed alla Rocca. Nota: portare un
binocolo perchè ovviamente le
nidificazioni sono lontane dalla
presenza umana.
note più approfondite in:
http://www.zoneumidetoscane.it/it/le-aree/padule-di-fucecchio/lambiente.
2)
Visita alla rocca fortificata di
Monsummano Alto
(visita pomeridiana)
Il colle di Monsummano
costituiva un luogo viario
strategico, in posizione
dominante sul Padule di
Fucecchio e sulla Valdinievole,
e per questo fu fortificato
almeno dall'XI secolo con un
sistema difensivo accresciuto ed
ampliato nel corso del
tempo.Dell'antico castello si
conservano oggi i resti della
cerchia ellittica delle mura,
che lo cingevano per un
perimetro di circa due
chilometri e due delle tre porte
di accesso: la porta di "Nostra
Donna" e quella detta "del
Mercato" verso il colle di
Montevettolini.
Delle numerose torri di cui era
munito il castello resta,
all'estremità occidentale della
cinta muraria, una robusta e
imponente torre pentagonale,
databile nella sua forma attuale
agli inizi del XIV secolo.
L'edificio meglio conservato del
borgo è la Chiesa di San Nicolao,
prospiciente l'antica platea
communis, fondata nell'XI secolo
e compresa nel plebato di Neure
(o deMontecatino), entro la
diocesi medievale di Lucca. Di
fianco alla chiesa è presente
una terrazza panoramica naturale
con l'antica chiesa di San
Sebastiano, di fronte alla quale
recenti scavi hanno portato alla
luce le fondamenta di due
edifici, dove sono stati
rinvenuti frammenti di ceramica
di varie epoche. Seminascosti
dalla boscaglia che circonda il
nucleo centrale del castello si
conservano ad ovest i resti di
un convento e nella zona
orientale, nei pressi della
torre, i ruderi dell'antico
Spedale di San Bartolomeo. Dalla
cima del Colle si ha una visuale
unica sul Padule di Fucecchio,
sui castelli della Valdinievole
e sul Monte Pisano; nelle
giornate più limpide lo sguardo
arriva fino alle
colline livornesi, alle balze di
Volterra e alle torri di San
Gimignano.
Tre
giorni in Casentino:
Lago di Londa, pieve Santa
Maria delle Grazie e visita a
Poppi
Pieve di Romena/ castello di
Romena/ visita al castello
Camaldoli – percorso natura 3
- 2km 100 dislivello o 3km 300
dislivello
Loro Ciuffenna/ Pieve di
Gropina/Borro
Nota:
Alloggio a La Torricella a
Poppi, scelto per comfort, buona
cucina con porzioni generose,
cordialità ed equidistanza dalle
località prescelte per
l’occasione
In auto -
A Scandicci uscire dalla
FI.PI.LI per Roma (poi altra
uscita a Firenze sud) quindi
andare x Pontassieve, Rufina,
Londa. h.2,30.
Primo giorno
Lago di Londa , grazioso
laghetto, molto verde, con
tavoli, balneabile e
percorribile per passeggiata
tutto intorno
pieve Santa Maria delle
Grazie (a 4 km da Stia,
lungo la strada per Londa, si
trova il Santuario di Santa
Maria delle Grazie, costruito
sul luogo dove, secondo la
tradizione, nel 1428 apparve la
Madonna ad una contadina.
La chiesa conserva intatto
l’impianto quattrocentesco
arricchito da splendide
terrecotte di Andrea della
Robbia. Annesso alla chiesa si
erge maestoso ed affascinante il
chiostro dell'antico monastero,
memoria storica della funzione
che questo complesso ebbe come
abbazia succursale di quella di
Vallombrosa.
Alloggio in albergo e visita
al centro storico di Poppi
(parcheggiare dopo il monumento
ai caduti e prendere a destra,
dove si legge tennis campaldino),
uno dei borghi medioevali più
belli d’Italia
Secondo giorno
Pieve di Romena/ castello di
Romena
(raggiungibili in auto)
L’antica pieve romanica di
Romena è il cuore della
fraternità. In una valle intrisa
di spiritualità (in Casentino,
Toscana), tra Camaldoli e La
Verna, Romena si propone come un
possibile crocevia per tanti
viandanti del nostro tempo.
Come per i pellegrini del Medio
Evo, in marcia verso Roma, la
pieve rappresentava un punto di
riposo dove fermarsi per una
notte, rifocillarsi e ripartire,
così oggi la Fraternità vuol
offrire un luogo di sosta ai
viandanti di ogni dove.
https://www.romena.it/la-pieve/
10/14.30 15.30/20 Pranzo a
ROMENA RISTORA 10 - 17
castello di Romena h.10/13.30
– 14.30/19 Gi.Ve.Sa. festivi
Il castello di Romena, uno dei
più maestosi castelli
monumentali dei Conti Guidi del
Casentino, sorge su un colle di
626 m s.l.m a sbarramento del
Fiume Arno e in posizione
centrale nell’Alto Casentino
Fiesolano, nell’attuale Comune
di Pratovecchio Stia. Conserva
le vestigia della sua antica
grandezza nelle strutture
dell’area del cassero, di tre
grandi torri fortificate e di
varie parti delle tre cerchie
fortificate concentriche
disposte su diverse quote che ne
testimoniano le varie fasi
costruttive a cui andò incontro
tra XI e XIV secolo.
Fondato dai Marchesi di Spoleto
presumibilmente nel corso
dell’XI secolo, conobbe una
seconda fondamentale fase
edificatoria dopo che, nel corso
del XII secolo, entrò a far
parte dei possessi dei Conti
Guidi arrivando al massimo
splendore architettonico, come i
castelli di Porciano e Poppi,
durante il XIII secolo,
all’epoca di Dante Alighieri.
Alla metà del 1300, fu ceduto
tramite vendita dai Conti Guidi
alla Repubblica di Firenze
divenendo sede di un Comune e di
un Ufficialato. Il complesso,
così come lo possiamo ammirare
ancora oggi, ha un orientamento
sud/est – nord/ovest ed è
frutto, soprattutto,
dell’attività edificatoria
raggiunta nel corso del 1200.
Alla fine del 1700 il castello
venne messo all’incanto pubblico
e venne in seguito acquistato
dai conti Goretti de’Flamini che
ne detengono la proprietà ancora
oggi. All’inizio del XX secolo,
inoltre, e, più precisamente,
nel 1902, il poeta Gabriele
d’Annunzio fu ospite dei conti
Goretti e qui avrebbe scritto
gran parte dell’Alcyone. Dopo i
restauri della metà degli anni
’50 del XX secolo, il castello
ha assunto l’attuale fisionomia
architettonica, rimanendo uno
dei monumenti castellani più
significativi del Casentino e
della Toscana.
Ritorno all’hotel e visita al
castello di Poppi
(controllare orari e prevedere
almeno h.1/1,30 di visita).
POPPI :
https://www.viaggiesorrisi.com/cosa-fare-e-vedere-a-poppi/
Terzo giorno
MONASTERO
- 9.00 - 13.00 e 14.30 - 19.30
Cosa vedere?
-
Il Monastero di Camaldoli
-
L’Antica Farmacia dei monaci
camaldolesi
-
Il Sacro Eremo di Camaldoli
-
La Foresta (a piedi,
prendere il sentiero natura
3, a salire a sinistra
dall’asfaltata dove c’è il
punto info). Percorso ad
anello con dislivello m.100
di h.2 circa.
Nota: All’eremo ci si può
arrivare sia in auto che a
piedi, per un sentiero in
faggeta di circa 3 km ma con
dislivello di m.300.
EREMO - Da Lunedi al Sabato:
9.00 - 12.00 e 15.00 - 18.00
EREMO DI CAMALDOLI
Il complesso fu realizzato da
San Romualdo nel corso dell'XI
secolo. Intorno al 1012 arrivò
in mezzo alle foreste
casentinesi e decise di fondare
un eremo in mezzo alla natura.
Qui furono erette 5 celle e un
piccolo oratorio dedicato a san
Salvatore Trasfigurato. In un
secondo momento furono aggiunte
15 celle al nucleo originario
della struttura. Durante il
medioevo divenne un importante
centro culturale e, molti anni
più tardi fu sede dell'Accademia
Umanistica. Il complesso
architettonico è formato da
un'antica Foresteria, dalla
chiesa e dal monastero. Un
cancello separa il cortile dalla
zona riservata ai monaci che
vivono in piccole celle.
Il Sacro Eremo venne fondato nel
1012 (data più certa) da San
Romualdo che giunse qui in
cammino da Ravenna. Si innamorò
talmente tanto di questo luogo
che il vescovo di Arezzo
Teodaldo glielo diede in regalo.
San
Romualdo creò qui una sua cella
monastica insieme a qualche
altro monaco, siamo intorno al
1023. Qui i monaci benedettini
hanno scelto di vivere la loro
vita, isolandosi dalla società,
lontani dalla vita comune,
dedicandosi alla meditazione e
alla preghiera. Un tempo i
monaci non potevano incontrare
nessuno, oggi invece possono
incontrarsi, ma solamente
durante le messe e i pasti. Oggi
sono 9 gli eremiti che hanno
scelto la vita monastica! Pensa
che il più giovane ha
trent’anni. Oggi è possibile
visitare solo alcuni ambienti:
la foresteria, la chiesa,
l'antica cella di San Romualdo e
la sala dell'antico refettorio.
Per maggiori informazioni vi
invitiamo a visitare il sito
ufficiale http://www.camaldoli.it
Poppi – Loro Cuffenna – via
Rassina e Terranova Bracciolini
- 40 km. h.1 impostare
navigatore
https://www.lamiabellatoscana.it/2015/10/loro-ciuffenna-ed-i-suoi-borghi-minori.html
Il piccolo borgo di Loro
Ciuffenna (Ar),
arroccato ai piedi del
Pratomagno e sopra l’Area
Protetta delle Balze a 330 metri
di altitudine, è probabilmente
il più caratteristico e ben
conservato tra Firenze ed
Arezzo. Fa parte dei Borghi
più belli d’Italia e
con le sue frazioni minori forma
una delle aree geografiche più
belle da vedere nel cuore della Toscana.
5 motivi per visitare Loro
Ciuffenna
Il
mulino ad acqua più antico della
Toscana ed
ancora funzionante;
La rossa Torre
dell’Orologio che
svetta tra i tetti del paese;
Per fare una passeggiata nella
parte più vecchia del paese
chiamata “il
fondaccio”
tra gli stretti vicoli e le
caratteristiche case in pietra
che si affacciano a strapiombo
sul torrente Ciuffenna dove c’è
anche il vecchio ponte
romanico;
La casa-museo
di Venturino Venturi;
Per visitare la chiesa
dell’antico borgo medioevale
dedicata a Santa
Maria Assunta e
l’Oratorio
di Nostra Signora dell’Umiltà,
poco fuori il centro storico,
che conserva numerosi dipinti di
pregio.
Nel vecchio borgo di Loro
Ciuffenna (Ar),
uno dei più caratteristici e
meglio conservati di tutto il
Valdarno Superiore, si trova
il più
antico mulino ad acqua della
Toscana ancora in
funzione. Fu costruito intorno
l’anno mille ai
margini di un orrido sul
torrente Ciuffenna.
Anticamente le sue sponde
ospitavano diversi
mulini ad
acqua che poi con gli anni sono
andati drasticamente dismessi.
Nel dopoguerra se ne trovavano
ancora sei,
poi con lo spopolamento graduale
delle campagne è rimasto solo
quest’ultimo esemplare.
RITORNO:
Loro Ciuffenna – Livorno km.150
h.2 x Firenze e quindi uscita
Scandicci e FI PI LI
La pieve di San Pietro a
Gropina,
prima del borgo: un luogo di
culto cattolico che si trova in
località Gropina, nel comune di
Loro Ciuffenna, in provincia di
Arezzo. La chiesa costituisce
uno degli esempi più alti
dell'architettura romanica in
Toscana.
La Pieve fu eretta attorno
all’anno Mille e presenta una
facciata in grandi bozze di
pietra, con due monofore
corrispondenti alle navate
laterali e una bifora che
sovrasta la porta d’ingresso,
sull'architrave della porta è la
data 1422, probabilmente
riferibile ad uno degli
interventi di restauro; lo
stemma di Leone X che sovrasta
l'architrave porta la data 1522.
Variante possibile, in
sostituzione di Camaldoli,
SANTUARIO DELLA VERNA (circa
KM.50 PER H.1,20 di auto)
Individuerete senza indugio il
Monte della Verna da ogni zona
del Casentino e dell'Alta Val
Tiberina. Infatti questo sperone
di roccia ha una forma unica, la
vetta è tagliata da tre parti.
Per questo motivo La Verna è
anche uno dei simboli più
importanti del Casentino, sulla
cui sommità sorge il bellissimo
santuario francescano che si
raggiunge anche attraverso un
antico sentiero immerso nella
natura.
Arrivare a piedi alla Verna
significa fare un viaggio
spirituale alla scoperta di sé
stessi percorrendo l’antica via
delle Foreste Sacre.
Il Santuario fu eretto intorno
ai primi anni del duecento, dopo
che il conte Orlando Cattani di
Chiusi in Casentino donò a San
Francesco il Monte della Verna.
OPPURE:
Poppi/lago di Ridracoli h.1
km 50 Poppi, Stia, passo della
Calla, Campigna, Ridracoli
Un’oretta circa di cammino dal
parcheggio di Ridracoli fino al
rifugio che incontrerete sul
sentiero, qui c’è anche un bel
prato dove stendersi e riposarsi
al sole..quindi portatevi con
voi un bel plaid:D
Si
parte dalla diga e tramite
un percorso di 5 chilometri (andata
e ritorno) e
un dislivello di 150 metri si
arriva a destinazione. Lungo la
strada, che non presenta
particolari difficoltà , sono
numeros e tracce lasciate
dall’uomo: la mulattiera, la
Casetta Cà Margheritini, i
muretti, il sentiero ciottolato…
sino alla vista mozzafiato sul
lago e sulla diga di Ridracoli.